Analisi in Open Space

Ogni buona azienda traduce nella comunicazione off ed on line i propri tratti distintivi, ricercando ciò che si definisce in comunicazione “l’immagine coordinata”. Queste trattazioni verranno ampiamente affrontate nella categoria Marketing. Ciò che riveste fondamentale importanza in questo articolo, è di come, quando e quanto l’approccio comunicativo venga spesso sfavorito dalla progettazione degli spazi aziendali, primo baluardo della conoscenza del cliente sia potenziale che reale nelle dinamiche che articolano la promìse (def. dal mkt: promessa aziendale) ed i meccanismi psicologici della fedeltà al rapporto tra le due parti.

Una prima divisione che dovrà attivare le fasi creative della progettazione nella distribuzione degli spazi deve essere determinata dal riconoscimento della tipologia di comunicazione a cui tende o vorrà tendere l’azienda:

  • in presenza di aziende contraddistinte dal prodotto o dal servizio offerto, l’analisi deve necessariamente partire dallo studio critico ed analitico del posizionamento del prodotto/servizio e della loro natura, dell’organigramma e delle relative azioni interne, del carattere strutturato dell’offerta, soprattutto in merito agli aspetti local, glocal o global del mercato di riferimento, del marchio e del valore aggiunto definito nelle fasi di marketing e comunicazione, sia antecedenti la rivisitazione degli spazi che in termini di strategia futura;
  • in presenza di brand, invece, l’analisi dovrà imprimere nel brief creativo tutte le caratteristiche della marca, esprimendo appieno le salienze caratteriali della stessa; progettare gli spazi di una marca è equivalente alla progettazione residenziale che si dovrebbe svolgere per un singolo individuo. Le caratteristiche empatiche, lo stile di vita, l’etica ed i valori interni all’azienda devono essere espressi in ogni fase prossemica della gestione del rapporto con i propri interlocutori.

L’analisi sistematica dei metodi della progettazione in termini di comunicazione coerente e coordinata per marchio e marca verrà approfondita man mano assieme ai concetto delle altre tre categorie di Prossemica. Per ora è sufficiente distinguere due macro tipologie di spazi aziendali, mettendo a confronto gli open space con le più tradizionali suddivisioni per uffici.

In pochi conoscono quali siano gel origini dei primi: la tipologia progettuale degli ampi spazi senza barriere si sperimenta nella Open Space Technology, con un’intuizione dell’antropologo americano, Harrison Owen, pioniere della OST e prestato alla consulenza aziendale. La OST è uno strumento di apprendimento informale che agevola la circolazione di informazioni, conoscenze, esperienze all’interno di organizzazioni e permette di affrontare processi di cambiamento quando è necessario un confronto su questioni complesse e dove non esiste una soluzione univoca. Diversamente dalla maggior parte delle dinamiche partecipative infatti, l’Open Space lascia liberi i partecipanti di operare come meglio credono, utilizzando le modalità di lavoro che ritengono più utili e produttive.

L’Open Space Technology può essere uno strumento efficace solo in particolari condizioni:

  • Un serio e reale problema su cui lavorare
  • Un’elevata complessità
  • Molteplici punti di vista
  • Conflittualità diffusa
  • Necessità di trovare una soluzione nell’immediato.

Il luogo ideale dove svolgere una conferenza Open Space Technology deve essere dotato di una stanza abbastanza grande da poter ospitare tutti i partecipanti seduti in circolo ed altre stanze più piccole, facilmente raggiungibili, per i gruppi che si formeranno nelle fasi di lavoro. Lo spazio non deve essere particolarmente strutturato, è importante invece che sia confortevole. Elementi fisici, come tavoli e scrivanie, non servono in quanto occupano spazio ed intralciano i movimenti delle persone. Nella stanza centrale su una parete vengono sistemati cartelloni prodotti dal gruppo, che devono essere ben visibili e facilmente accessibili. Una parte della stanza ospita la zona computer/fotocopiatrice, adibita alla redazione dell’instant report, mentre un’altra sarà la zona dedicata al coffe break. I partecipanti siedono in circolo, il cui centro è vuoto, così che tutti si possano guardare negli occhi e sentire alla pari degli altri. In questo modo, già dal principio si viene a creare una sensazione di uguaglianza e partecipazione.

Nella OST è di fondamentale importanza il ruolo del facilitatore, inteso come moderatore delle dialettiche del gruppo.

 

New York Times

Tutti gli ambienti che non corrispondono a queste tematiche, a tali valori interni ed alle delicate fasi citate, non possono certo definirsi Open Space, bensì solamente spazi architettonici aperti.

Una recentissima ricerca dello Studio Gensler decreta la fine degli aspecialistici posti di lavoro in “Open Space”, verso sistemi di lavoro ibridi, sostenibili e personalizzati a misura d’uomo. Inoltre un articolo del New York Times “The Rise of the New Groupthink” ha sfidato la tendenza attuale sul luogo di lavoro in “spazio aperto” indicando i danni alla concentrazione e focalizzazione sul posto di lavoro a causa di questa tipologia di soluzioni.

Sulla stessa linea, The Atlantic’s Collaborative Workspaces: Not All They’re Cracked Up To Be” parla di singoli stili di lavoro e della la necessità di spazi in grado di soddisfare le esigenze della “personalità” di ogni singolo lavoratore a vantaggio dell’efficienza e della competitività.

 

In Italia, spesso fanalino di coda dell’approccio aziendale alla comunicazione, architetture talvolta divergenti rispetto alle volontà strategiche delle aziende tentano di dare espressione al marchio, ma la maggior parte delle volte dimenticano il reale know how, fatto dalla comunicazione tra le competenze che in quello spazio lavorano.

 

L’intento di questo articolo, così come della nostra Academy, è di sensibilizzare progettisti ed imprenditori sulle tematiche dirette alla “performance” (e non più alla mera “produttività“) dei collaboratori.

L’architettura può essere un ottimo strumento per favorire la contaminazione delle competenze, la collaborazione e la reciprocità, se e solo se sia un’architettura saggia e meditata.

Si demanda ai seguenti link per approfondimenti:

http://www.repubblica.it/salute/2013/06/10/news/lavoro_voce_alta_e_aria_condizionata_per_6_su_10_l_open_space_fa_nascere_conflitti-60799520/

http://www.corriere.it/salute/12_giugno_21/uffici-open-space_0c057d9a-b3d1-11e1-a52e-4174479f1ca9.shtml

https://quifinanza.it/lavoro/lavoro-uffici-open-space-fanno-male-produttivita-umore-impiegati/288367/

SWOT edile

Klimahouse: la fiera internazionale per l’efficienza energetica e il risanamento in edilizia, si propone di mettere in risalto una serie di alternative tecniche ed economiche in grado di garantire un notevole risparmio energetico. Dalle varie visite ai padiglioni del Klimahouse, provando ad interpretare le proposte degli espositori nell’ottica del cliente finale, come decisore e fruitore potenziale delle aziende esponenti, abbiamo preso in esame tre aziende a titolo di esempio, potenzialmente simili, tutte operati nel settore dell’edilizia in legno e tutte con sede in Alto Adige.

Ipotizzando un consumatore prettamente razionale, il confronto didascalico derivante dal solo materiale di comunicazione proposto in fiera è il seguente:

L’analisi non favorisce il processo decisionale del consumatore: le tre aziende sono similari in merito a storia, sostenibilità del prodotto e promìse.

La differenziazione delle tre aziende viene parzialmente determinata invece dalle dimensioni del gruppo dove l’Azienda 3 risulta più coincisa (sebbene questo fattore abbia alcune valenze positive nell’emisfero emotivo di alcuni consumatori), dai settori dei tre gruppi, sebbene tutta la trilogia proponga strutture residenziali in legno, dalle tecniche di produzione ed in particolare dal prodotto di punta per le prime due aziende, ed infine dallo stile che vede nella personalizzazione un benefit fondamentale per i propri utenti, sebbene questi ultimi raramente posseggano tutte le informazioni necessarie per poter scegliere le finiture in autonomia. Il villaggio espositivo della prima azienda potrebbe facilitare l’utente in merito alle opzioni di consumo. Su questo punto saliente insiste infatti la seconda azienda, provando a pre-determinare quattro stili di tendenza per orientare il consumatore circa lo stile architettonico e le rifiniture, comprensive degli arredi.

Tutte queste considerazioni che spesso nelle PMI vengono lasciate alla mente della direzione, trovano uno strumento specifico nel marketing: si tratta della matrice SWOT.

La formulazione di un’ipotetica SWOT di una di queste tre aziende, scelta del tutto casualmente e svolta a mero titolo esemplificativo, giacchè tale analisi implica per necessità di cose la profonda conoscenza dell’organizzazione interna, cosa che di certo la fiera non può offrire, potrebbe essere questa:

La SWOT dunque è uno strumento di pianificazione strategica di un progetto e/o di un’impresa. 

L’analisi può riguardare l’ambiente interno (analizzando punti di forza e di debolezza) o esterno di un’organizzazione (analizzando minacce ed opportunità).

A partire dalla definizione dei quattro quadranti e dalla combinazione dei punti cardine individuati, è quindi possibile sapere con esatta certezza se un obiettivo pianificato sia ammissibile o meno e, nel primo caso, procedere all’individuazione degli input per la generazione di possibili strategie aziendali.

Stand Rinnovation

Progettare uno stand significa progettare il luogo “reale” della comunicazione aziendale.

Le prossime fiere in calendario hanno già riacceso l’interesse verso la progettazione degli stand: visitandole di volta in volta è infatti possibile notare piccole e grandi lacune in termini di coerenza tra l’immagine aziendale di alcuni espositori e lo stand proposto.

Sovente infatti la progettazione di questo spazio viene demandata al gusto estetico ed al know how del progettista.

Tuttavia il nucleo centrale dell’intero processo di progettazione deve vertere anzitutto sulla sua efficacia comunicativa, intesa in primis come rappresentazione aziendale e solo in seconda battuta da criteri di funzionalità.

Il percorso più corretto per tale progettazione dovrebbe iniziare da un brief a cura dell’azienda:

  • analisi preliminare:
  1. scelta della fiera, definita in base al target ed all’immagine dell’evento, che deve essere coerente con l’immagine aziendale;
  2. definizione degli obiettivi dell’azienda e dei ritorni attesi dalla fiera;
  3. budget parziale: affitto dello spazio, progettazione e realizzazione dello stand, allestimento;
  4. budget totale: costi collaterali quali quelli organizzativi, del personale, iniziative varie (buffet, cene, etc.), costi di comunicazione (sia on che off line, nonché brochures, inviti etc.);
  5. individuazione del project manager;
  • brief creativo:
  1. mission, vision, eventuale mantra vision, codice etico e valori aziendali;
  2. marchio: forme, colori (pantone o RAL), font, dimensioni, linee prospettiche ed assonometrie;
  3. analisi e sintesi dell’immagine coordinata dell’azienda;
  4. i prodotti da esporre, secondo ordine gerarchico d’importanza (compresi design da testare);
  5. localizzazione del mercato di riferimento (local, glocal o global);
  6. principale target di riferimento raggiungibile mediante la fiera prescelta;
  • spazi prossemici:
  1. caratteristiche culturali del target potenziale: paradossalmente nei Paesi caldi gli spazi prossemici sono più stretti (nei Paesi Arabi l’abbraccio rappresenta il saluto), viceversa nei Paesi più freddi (in Giappone ad esempio la stretta di mano è surclassata dall’inchino);
  2. definizione delle aree di competenza: tecniche, organizzative e gestionali, relazionali e comunicative.

Dal brief aziendale, l’analisi architettonica a cura del progettista:

  • lettura ed interpretazione corretta del brief creativo esposto dall’azienda committente;
  • progettazione degli spazi prossemici:
  1. spazi di transito e spazi di sosta: a questi ultimi va data una maggiore dimensione per evitare una vicinanza distorsiva tra estranei;
  2. spazi di visione: l’atto del guardare necessita di piccole nicchie ove poter sostare senza che la propria vista o la propria permanenza vengano danneggiate dalle zone di transito;
  3. spazi di relazione: destinati al contesto commerciale, abbisognano di privacy;
  • progettazione architettonica dello stand (interpretando rigorosamente il brief dettato dall’azienda):
  1. scelta della tipologia di stand: aperto o chiuso. Se lo stand è aperto, è possibile determinarne la forma: ad isola, a penisola, ad L, aperto su uno o due lati;
  2. il layout non serve, poiché concetto fuorviante rispetto all’analisi delle competenze aziendali che entreranno in fiera, come illustrato nel brief aziendale;
  3. i percorsi si suddividono normalmente in percorso singolo, multiplo o a ventaglio. Nuovamente l’informazione non deve nascere dal progettista, bensì pervenire dagli spazi prossemici analizzati e richiesti dall’azienda;
  4. ad un’unico livello o multipiano, modulare o su misura, sulla sua forma e sulla definizione dei perimetri e delle altezze;
  5. pareti e soffitti, finiture ed arredi, l’illuminazione, grafica etc. sono infine chiavi di comunicazione di fondamentale importanza: la percezione del visitatore dovrà corrispondere univocamente all’immagine coordinata dell’azienda, al suo universo culturale ed ai valori interni, nonché al piani di marketing e di comunicazione sviluppati al suo interno;
  6. rispetto ai materiali da utilizzare per la costruzione dello stand, alle certificazioni in termini di sicurezza, antincendio etc., sta al progettista invece orientare il proprio committente sulle scelte puntuali.

Affidare la progettazione dello stand ad un buon progettista significa semplicemente condividere con lo stesso l’identità aziendale ed instaurare una relazione a due fatta di ascolto e comprensione, parimenti a come si farebbe nell’incontro tra due persone che abbiano voglia di conoscersi e di presentarsi assieme al mondo esterno.

Valori e competenze

Sempre più spesso le aziende, per poter far fronte alla concorrenza e all’evoluzione del proprio mercato, devono offrire ai clienti certezze sulla qualità dei prodotti/servizi sviluppati e trasparenza nei processi aziendali.

Nell’ultimo ventennio il mondo delle imprese, sia manifatturiere che di servizio, sia pubbliche che private, è stato protagonista di una vera e propria rivoluzione della qualità  che ha profondamente influenzato le strategie d’impresa, il management, il ruolo delle persone e la modalità con cui approcciare le diverse attività aziendali. Questa rivoluzione globale ha sottolineato per le aziende un vero e proprio passaggio cruciale, che in molti casi è divenuto obbligatorio per la sopravvivenza nel mercato: instaurare un Sistema di Gestione per la Qualità (SGQ) in grado di essere certificato da un ente accreditato.

La necessità di avere un riferimento internazionale, attraverso il quale stabilire la qualità del proprio lavoro, ha determinato, nel 1987, l’emanazione, da parte dell’ISO (International Organization for Standardization), di una famiglia di norme internazionali. Tale famiglia contiene un insieme di regole il cui scopo è garantire che un’azienda implementi un sistema di gestione interna in grado di garantire la qualità dei prodotti/servizi offerti. 

La volontà di intraprendere un percorso di certificazione da parte delle aziende sia spesso dettata solamente da logiche di mercato, è necessario rimarcare come quest’obbligo si può trasformare in una vera e propria opportunità “sociale”. Infatti, da un lato si rivedono in chiave di business i propri asset strategici ed operativi, ma dall’altro tale percorso si può rivelare un vero e proprio progetto “comune”, strategico per mantenere:

  • un alto coinvolgimento e affiatamento tra i collaboratori, 
  • una contaminazione e aumento delle competenze in un’ottica di miglioramento continuo.

Nella sua etimologia il termine “competenza” (dal latino “cum-petere”) significa “chiedere”, “dirigersi a”, ossia la “piena capacità di orientarsi in determinati campi con legittimazione di autorità e ruolo ad esprimere un mandato”.

Nelle aziende, in particolare, con i propri collaboratori, si instaura una corrispondenza tra compito atteso e capacità del soggetto ad assolverlo.

La nozione di competenza riguarda sia le prestazioni di fronte ad un compito, sia i processi che intervengono nell’esecuzione di una o più attività: ne deriva che le prestazioni esplicite ed osservabili sono condizione necessaria ma tutt’altro che sufficiente per descrivere la competenza, in quanto pratica contestuale i cui singoli elementi sono impossibili da disaggregare e misurare. La competenza così intesa si può definire “contestuale”, legata ovvero all’ambiente di azione, e strategica rispetto alle forme possibili di decisione e di intervento.

Lo studio, l’analisi ed il perfezionamento dei processi di apprendimento implica, quindi, l’attenzione ai contesti intesi come luoghi all’interno dei quali l’individuo stesso trova una possibilità per la sua espressione.

Il contesto è formativo perché plasma il modo in cui gli individui costruiscono i significati.

Tali contesti si sviluppano nel corso dell’interazione sociale e non possono pertanto essere creati od imposti da singoli attori (si veda il concetto di “habitus” espresso da P. Bourdieu*): nello studio e nella ricerca su come gli individui apprendono mentre lavorano e su come sia possibile sostenere il recesso di apprendimento, è indispensabile fare riferimento al contesto socioculturale ed al contesto delle comunità di pratiche.

L’idea di cultura, nel nostro caso da intendersi come “cultura aziendale”, come processo di costruzione, ricostruzione e distruzione dei significati (Piccardo e Benozzo, 1996) richiama l’opera di Weick che parla di attivazione di ambienti attraverso l’agire organizzativo e l’attribuzione di senso.

Una volta attivati gli ambienti, essi hanno un effetto retroattivo sugli attori e sulle sue attività, condizionate. La cultura, quale “struttura di significato nei termini della quale gli esseri umani interpretano la loro esperienza e dirigono la loro azione” (Geertz, 1987), ha un tratto tangibile nel sistema di simboli che veicolano codici di significato. I simboli presenti in un contesto socioculturale incorporano ed esprimono relazioni. Essi rappresentano un insieme di forme che vanno dalla fisionomia degli spazi e degli edifici, agli arredamenti, alle consuetudini fattive e fattuali dei suoi partecipanti e che costituiscono un insieme di elementi attraverso i quali è possibile entrare, interagire ed uscire da un determinato contesto che orienta le azioni e le decisioni dei suoi partecipanti.

In questa accezione questo articolo si lega al post pubblicato nel nostro blog I fondamenti aziendali:l’apprendimento di un qualsiasi saper fare è mediato dalle relazioni, sia nella fase di formazione che in quella del lavoro, in cui l’individuo incontra, all’interno della singola organizzazione, altri individui con cui dà vita ad un sistema di relazioni che egli sente come maggiormente significative relativamente al compito assegnato (compito sociale, non prettamente contestualizzato alla propria mansione professionale).

*Testi di approfondimento:

Competenze e formazione – organizzazione lavoro apprendimento – Ed. Guerini e Associati