Stand Innovation

Una delle icone italiane che più rimangono impresse all’occhio dello straniero: i panni stesi.

Quanto più di intimo ognuno di noi possegga viene esposto al sole e lambito dal vento, svolazzando tra i palazzi dei bei centri storici, formando linde bandiere che completano il balcone di qualche casa appartata del nostri Bel Paese.

Nella suggestiva fotografia, originariamente intitolata “Stèndin ovation” di Emanuele Minetti, uno scorcio della storica Genova, repubblica marinara profondamente legata alla storia del commercio internazionale, contraddistinta dal settore finanziario risalente al Medioevo, ove, nel 1407, fu fondato il Banco di San Giorgio, prima banca del mondo e fondamento della prosperità della città a partire dalla metà del XV secolo. La ricchezza culturale per storia, arte, letteratura e musica ispirò alcuni versi del Petrarca, che la definì “(…) regale, addossata a una collina alpestre, superba per uomini e per mura. Il suo solo aspetto era in grado di indicarla Signora del mare”.

Mondi diversi_ - Foto di Lena Bell

Ciò che nel gergo del marketing e della pubblicità viene definito come “visual merchandising” appare riduttivo; “visual” (def.) corrisponde al “disegno contenuto nel layout o la parte visiva di un commercial o di un annuncio stampa”, mentre per “merchandising” si intendono “tutte le attività mirate a promuovere le vendite di un prodotto dopo che ha raggiunto il punto vendita; vi rientrano quindi il packaging, l’esposizione o display, le offerte speciali e tutte le iniziative promozionali” (def. da “Il dizionario dei termini di marketing & pubblicità” – Ed. Italia Oggi).

Nonostante le definizioni e le accezioni periferiche che sempre più negli ultimi anni hanno allargato il campo del visual merchandising, rimane ancora una zona d’ombra importante: la trasposizione, il “mettersi nei panni degli altri”.

Il panno è strettamente legato alla persona, pertanto, ai fini di una buona progettazione del merchandising, questa non può in alcun modo esimersi dalla personalità di marca o dallo stile del marchio di produzione o del commercio.

Al blog Prossemica viene demandato il compito di fornire gli strumenti per tradurre il linguaggio del marketing nel gergo tecnico del progetto e del progettista e viceversa. A tal fine l’analisi verrà inizialmente focalizzata su alcuni concetti chiave della psicologia ambientale. Ai progettisti dunque è dedicata non solamente questa categoria, ma in particolare quella del “marketing”.

Analisi in Open Space

Ogni buona azienda traduce nella comunicazione off ed on line i propri tratti distintivi, ricercando ciò che si definisce in comunicazione “l’immagine coordinata”. Queste trattazioni verranno ampiamente affrontate nella categoria Marketing. Ciò che riveste fondamentale importanza in questo articolo, è di come, quando e quanto l’approccio comunicativo venga spesso sfavorito dalla progettazione degli spazi aziendali, primo baluardo della conoscenza del cliente sia potenziale che reale nelle dinamiche che articolano la promìse (def. dal mkt: promessa aziendale) ed i meccanismi psicologici della fedeltà al rapporto tra le due parti.

Una prima divisione che dovrà attivare le fasi creative della progettazione nella distribuzione degli spazi deve essere determinata dal riconoscimento della tipologia di comunicazione a cui tende o vorrà tendere l’azienda:

  • in presenza di aziende contraddistinte dal prodotto o dal servizio offerto, l’analisi deve necessariamente partire dallo studio critico ed analitico del posizionamento del prodotto/servizio e della loro natura, dell’organigramma e delle relative azioni interne, del carattere strutturato dell’offerta, soprattutto in merito agli aspetti local, glocal o global del mercato di riferimento, del marchio e del valore aggiunto definito nelle fasi di marketing e comunicazione, sia antecedenti la rivisitazione degli spazi che in termini di strategia futura;
  • in presenza di brand, invece, l’analisi dovrà imprimere nel brief creativo tutte le caratteristiche della marca, esprimendo appieno le salienze caratteriali della stessa; progettare gli spazi di una marca è equivalente alla progettazione residenziale che si dovrebbe svolgere per un singolo individuo. Le caratteristiche empatiche, lo stile di vita, l’etica ed i valori interni all’azienda devono essere espressi in ogni fase prossemica della gestione del rapporto con i propri interlocutori.

L’analisi sistematica dei metodi della progettazione in termini di comunicazione coerente e coordinata per marchio e marca verrà approfondita man mano assieme ai concetto delle altre tre categorie di Prossemica. Per ora è sufficiente distinguere due macro tipologie di spazi aziendali, mettendo a confronto gli open space con le più tradizionali suddivisioni per uffici.

In pochi conoscono quali siano gel origini dei primi: la tipologia progettuale degli ampi spazi senza barriere si sperimenta nella Open Space Technology, con un’intuizione dell’antropologo americano, Harrison Owen, pioniere della OST e prestato alla consulenza aziendale. La OST è uno strumento di apprendimento informale che agevola la circolazione di informazioni, conoscenze, esperienze all’interno di organizzazioni e permette di affrontare processi di cambiamento quando è necessario un confronto su questioni complesse e dove non esiste una soluzione univoca. Diversamente dalla maggior parte delle dinamiche partecipative infatti, l’Open Space lascia liberi i partecipanti di operare come meglio credono, utilizzando le modalità di lavoro che ritengono più utili e produttive.

L’Open Space Technology può essere uno strumento efficace solo in particolari condizioni:

  • Un serio e reale problema su cui lavorare
  • Un’elevata complessità
  • Molteplici punti di vista
  • Conflittualità diffusa
  • Necessità di trovare una soluzione nell’immediato.

Il luogo ideale dove svolgere una conferenza Open Space Technology deve essere dotato di una stanza abbastanza grande da poter ospitare tutti i partecipanti seduti in circolo ed altre stanze più piccole, facilmente raggiungibili, per i gruppi che si formeranno nelle fasi di lavoro. Lo spazio non deve essere particolarmente strutturato, è importante invece che sia confortevole. Elementi fisici, come tavoli e scrivanie, non servono in quanto occupano spazio ed intralciano i movimenti delle persone. Nella stanza centrale su una parete vengono sistemati cartelloni prodotti dal gruppo, che devono essere ben visibili e facilmente accessibili. Una parte della stanza ospita la zona computer/fotocopiatrice, adibita alla redazione dell’instant report, mentre un’altra sarà la zona dedicata al coffe break. I partecipanti siedono in circolo, il cui centro è vuoto, così che tutti si possano guardare negli occhi e sentire alla pari degli altri. In questo modo, già dal principio si viene a creare una sensazione di uguaglianza e partecipazione.

Nella OST è di fondamentale importanza il ruolo del facilitatore, inteso come moderatore delle dialettiche del gruppo.

 

New York Times

Tutti gli ambienti che non corrispondono a queste tematiche, a tali valori interni ed alle delicate fasi citate, non possono certo definirsi Open Space, bensì solamente spazi architettonici aperti.

Una recentissima ricerca dello Studio Gensler decreta la fine degli aspecialistici posti di lavoro in “Open Space”, verso sistemi di lavoro ibridi, sostenibili e personalizzati a misura d’uomo. Inoltre un articolo del New York Times “The Rise of the New Groupthink” ha sfidato la tendenza attuale sul luogo di lavoro in “spazio aperto” indicando i danni alla concentrazione e focalizzazione sul posto di lavoro a causa di questa tipologia di soluzioni.

Sulla stessa linea, The Atlantic’s Collaborative Workspaces: Not All They’re Cracked Up To Be” parla di singoli stili di lavoro e della la necessità di spazi in grado di soddisfare le esigenze della “personalità” di ogni singolo lavoratore a vantaggio dell’efficienza e della competitività.

 

In Italia, spesso fanalino di coda dell’approccio aziendale alla comunicazione, architetture talvolta divergenti rispetto alle volontà strategiche delle aziende tentano di dare espressione al marchio, ma la maggior parte delle volte dimenticano il reale know how, fatto dalla comunicazione tra le competenze che in quello spazio lavorano.

 

L’intento di questo articolo, così come della nostra Academy, è di sensibilizzare progettisti ed imprenditori sulle tematiche dirette alla “performance” (e non più alla mera “produttività“) dei collaboratori.

L’architettura può essere un ottimo strumento per favorire la contaminazione delle competenze, la collaborazione e la reciprocità, se e solo se sia un’architettura saggia e meditata.

Si demanda ai seguenti link per approfondimenti:

http://www.repubblica.it/salute/2013/06/10/news/lavoro_voce_alta_e_aria_condizionata_per_6_su_10_l_open_space_fa_nascere_conflitti-60799520/

http://www.corriere.it/salute/12_giugno_21/uffici-open-space_0c057d9a-b3d1-11e1-a52e-4174479f1ca9.shtml

https://quifinanza.it/lavoro/lavoro-uffici-open-space-fanno-male-produttivita-umore-impiegati/288367/

La scelta dell’emozione

Il tema centrale più attuale che plasma i grandi obiettivi del marketing ed i risultati sottesi alla strategia aziendale è connaturato nell’esplorazione delle emozioni che l’azienda vuole, deve, comunicare. 

Il marketing emozionale, come già detto, gioca un ruolo sempre più rilevante nel panorama commerciale odierno: senza di esse l’uomo non sarebbe più in grado di decidere, quindi di agire.

Nelle scelte di consumo il sistema emotivo, automatico e inconscio, risulta molto più celere del  sistema razionale, controllato e conscio. 

I marketer più aggiornati si servono di inneschi emotivi nelle loro campagne: il cardine risiede nei valori che l’impresa decide di perseguire, nella mission e nella vision aziendale e nelle identità o modalità d’uso delle linee di prodotti e servizi erogate.

Le emozioni sono il punto di partenza per la creazione o la gestione di un marchio, che sappia generare maggiore empatia con i consumatori. Se l’emozione è positiva, si trasformerà in una sensazione piacevole, portando la persona ad avere forti associazioni con il marchio, che lo farà durare nel tempo e ci permetterà di raggiungere la tanto attesa fedeltà del cliente.

Solo successivamente all’identificazione del marchio, le emozioni devono essere analizzare e sintetizzate con coerenza nel marketing mix e nelle fasi di comunicazione dell’azienda: dalla pubblicità, nei punti vendita, nei processi dei centri di assistenza al cliente, dall’uso del prodotto e dalle risorse umane che si interfacciano a nome dell’impresa verso il proprio mercato di riferimento. 

Di fatto, esistono ancora molteplici definizioni del termine emozione che comportano un certo grado di accordo e di disaccordo tra gli autori; una delle teorie maggiormente utilizzate, sebbene non troppo recente, è estrapolata da R. Plutchik, creatore della “ruota delle emozioni”.

Il suo saggio rimane per ora la rassegna più dettagliata delle ricerche neurobiologiche sulle emozioni:  

L’emozione è un insieme complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, mediate da sistemi neurali/ormonali, che possono

  • dare origine a esperienze affettive come sensazioni di attivazione e di piacere/dispiacere; 
  • generare processi cognitivi come effetti percettivi emotivamente rilevanti, valutazioni, processi di etichettamento; 
  • attivare aggiustamenti fisiologici di vasta portata alle condizioni elicitanti; 
  • portare a un comportamento che è spesso, ma non sempre, espressivo, finalizzato e adattativo.

Nella sua ruota, Plutchik compone otto emozioni primarie, cioè quelle innate e presenti in ogni popolazione, ed otto emozioni secondarie, originate dalle primarie ma derivate dall’interazione sociale e dalla cultura di appartenenza. Ciascuna di esse è associata ad un colore, che rappresenta la sua intensità, identificando dapprima le emozioni primarie per poi spiegare le emozioni miste od i miscugli di emozioni che derivano da esse. 

In questo articolo verranno anzitutto approfondite le emozioni primarie, che in anni più recenti (2008), P. Ekman, psicologo americano, definì così:

  • rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare talvolta anche attraverso l’aggressività;
  • paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;
  • tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto. 

Questo primo insieme di emozioni primarie vengono spesso utilizzate nelle campagne che  promettono ai clienti che un prodotto/servizio specifico permetterà di evitare o superare la situazione che temono. 

I nordamericani parlano spesso di Fear of Missing Out (FOMO): è la paura di perdersi qualcosa, rimanere fuori dal giro. I marketer fanno leva su questa sensazione per indurre gli utenti all’acquisto. 

Per esempio menzionando un’offerta che scadrà presto o sottolineando i benefici esclusivi di cui godono gli iscritti a un certo programma fedeltà. 

Lo stesso meccanismo viene spesso ripreso in un’emozione secondaria, quale il senso di colpa, quando il prodotto o servizio offerto può alleviare il problema sul quale l’utente si è concentrato. Un esempio sono le campagne promozionali per il dimagrimento.

  • Gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;
  • sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia. 

Questo secondo insieme genera stati d’animo positivi, dai quali perviene una miscellanea generante la fiducia, sentimento vitale e fondamentale per qualsiasi relazione a lungo termine. 

Un marcato esempio di facile interpretazione si rileva nei servizi che garantiscono modalità di pagamento e di spedizione sicure e tempestive, oppure nella ripresa di recensioni positive e di altre testimonianze sulla bontà del prodotto acquistato. 

Per generare fiducia, trasparenza e chiarezza sono elementi essenziali per tutte le comunicazioni e le attività promozionali. Tuttavia i valori sono soggettivi e sono alla base delle nostre priorità e delle nostre scelte. 

Un cliente motivato all’acquisto dovrà pensare che sta facendo un affare, ovvero vorrà percepire un valore. Le promo “paghi due prendi tre” o le pratiche di rimborso si propongono di garantire un valore reale al cliente. 

Sospeso tra questo secondo insieme di emozioni ed il prossimo, a seconda dell’uso di concetti significativi espressi nella comunicazione, c’è il senso di appartenenza, sul quale si radica il desiderio di essere parte di una comunità, contraddistinta da valori sociali condivisi. 

A questa tipologia di comportamento corrisponde frequentemente il ricorso al “social media marketing”, ovvero alla creazione ed alla gestione di contenuti e campagne incentrate sui social network che si propongono la condivisione di una visione collettiva tesa a rafforzare la relazione tra clienti e marchio. 

Le aziende coltivano il senso di appartenenza dei clienti facendoli sentire membri di una grande famiglia (gioia) oppure di una cerchia esclusiva (distacco dalle altre cerchie).

Iconografia Riva, esclusiva Sofia Loren
  • Disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e disdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;
  • disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da una comunicazione corporale specifica.

Un largo esempio è l’utilizzo della leva della competizione: essa è una sensazione negativa ma che ci motiva perché ci spinge ad agire per raggiungere o superare gli altri. I clienti ricevono la sensazione che ciò che è stato acquistato li renderà migliori dei loro pari.

Un esempio tipico è certamente espresso dai vari prodotti di lusso, ma tale feed back si può adattare a qualsiasi oggetto.

Similmente questo tipo di emozioni viene spesso ripreso anche nella ricerca della propria leadership dall’utente: essa contraddistingue quei consumatori che ricercano l’innovazione e che desiderano provare dei prodotti per primi per poi parlarne esprimere il proprio, immediato, giudizio.

E’ pertanto necessario evidenziare la novità del prodotto; occasionalmente l’azienda propone una sorta di lista d’attesa a cui iscriversi via mail per essere avvisati prima degli altri, o contraddistingue la linea di prodotto anticipatamente al lancio sul mercato quale “limited edition”. 

In una prima analisi, dunque, sarebbe sufficiente iniziare a chiarire a quali valori si ispira il marchio aziendale e definire, pertanto, quale tipo di relazione l’azienda si propone di instaurare e mantenere con il proprio targetgroup. 

Invero, questo tipo di riflessione dovrebbe identificare l’emozione primaria alla quale il “sistema impresa” (di cui il marketing fa parte integrante), si vorrà ispirare in tutte le scelte da compiersi. 

Per ulteriori approfondimenti:

Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione. 

Il contagio emotivo.

https://www.youtube.com/watch?v=w9AHB0eJ8oc
Un cuore… di panna, negli anni ’80. Ed oggi?

Diverse piattaforme di social monitoring tengono traccia del sentimenti connessi ai contenuti basandosi spesso sulla ruota delle emozioni di Plutchik

Nonostante l’aiuto tecnologico di sistemi di analytics e reporting strutturati che permettono di raccogliere e analizzare in modo completo e sistematico le informazioni provenienti dai social, ulteriori sondaggi hanno tuttavia riscontrato la scarsa presenza di attività di analisi e di inclusione delle informazioni e dei feedback raccolti tramite social media all’interno dei processi decisionali aziendali. 

Uno dei social network comunemente utilizzato nel nostro Paese, Facebook, ha introdotto nel 2016 e tra i primi alcuni pulsanti, denominati ”Reactions” (ovvero “reazioni”), che consentono all’utente di esprimere le proprie emozioni relativamente ai contenuti postati ed agli eventuali commenti. 

Già agli inizi del 2012 i ricercatori del Data science center di Facebook avevano eseguito due esperimenti: nel primo test i soggetti del gruppo sperimentale erano stati esposti a contenuti positivi nel flusso delle notizie. In un secondo esperimento a contenuti negativi. 

Il risultato evidenzia un chiaro “contagio emotivo” tra persone. 

Inoltre è stata dimostrata la correlazione tra contenuti ad alto impatto emotivo, come le foto e i video, e la “viralità” nel social network.

Questo risultato ha avvalorato la strategia degli algoritmi, quali formule che condizionano sia le emozioni e il comportamento umano, che intere economie e strategie di marketing. 

L’algoritmo elabora quali contenuti mostrate nel flusso di notizie, determinando quali contenuti mostrare. Conseguentemente lo stesso influenza il budget delle aziende che usano il social network per farsi pubblicità.

Fanpage Karma, ottimo tool di analisi, permette una snella statistica delle emozioni più gettonate:

  • per le pagine di Facebook, la reazione “Love” è la più cliccata (45%) dopo il vecchio “Like”, seguiti da “Haha” 23%, “Wow” 13%, “Sorry” 10% e “Anger” 10%;
  • sul singolo post le reazioni si suddividono invece in “Love” 28% (ancora una volta la più utilizzata), ma a breve distanza segue il suo opposto, la rabbia “Anger” con ben il 27%; poi “Haha” 17%, “Sorry” 15% ed infine il “Wow” con il solo 12%.

La questione più interessante è che i post con reaction ottengono una portata di 2-3 volte superiore a quelli con solo i Like in termini di condivisione:

i post con i “Love” vengono condivisi 5.5 volte più spesso, i link con i “Sorry” 4 volte più spesso, i video con “Wow” e “Haha” vengono visti 6.5 volte più spesso ed i post “Angry” commentati il 50% in più.

E’ però importante notare che i Reactions hanno la pretesa di sintetizzare le emozioni riconosciute universalmente, dette anche “emozioni primarie” le quali, secondo vari studiosi, sarebbero sette, come già descritto nell’articolo “La scelta dell’emozione”.

Tuttavia i pulsanti in dotazione in Facebook ne escludono alcune, generalizzando il significato che l’utente vorrà esprimere:

  • Like: oltre a significare “mi piace” il contenuto, sovente viene utilizzato per segnalare all’autore del che quel post è stato visionato. Spesso quindi la reazione non giustifica l’effettiva lettura del testo.

L’elevato numero di like ad una pagina o ad un post, giustifica ormai nel panorama comune l’indice numerico di popolarità dell’autore e/o dell’azienda.

  • Love: esprime qualcosa di positivo e viene utilizzato in relazione a contenuti ritenuti particolarmente emozionanti, talvolta semplicemente per evidenziare un sentimento di gratitudine od affetto per la persona che ha postato un dato argomento;
  • Haha: la gioia esprime una reazione a diversi vissuti. Probabilmente quello più comune è di divertimento per una frase o un post piacevole, allo stesso tempo si è notato che più recentemente il suo impiego può rilevare, al contrario, una reazione satirica al contenuto.

Rispetto alle emozioni primarie, mancano infatti i bottoni della : per tale motivo le reazioni disponibili assumono significati talvolta opposti al loro senso originale.

  • Wow: la sorpresa, per definizione, è uno stato emotivo conseguente ad un evento inaspettato o contrario all’aspettativa di chi lo sperimenta. Dura pochi istanti ed è in genere seguita da paura o gioia. Il suo utilizzo in Facebook lega questa reazione frequentemente alla curiosità più che allo stupore;
  • Sigh: la psicologia illustra come la tristezza venga ancestralmente associata alla riflessione. Per questa reazione, semmai, il problema interpretativo risiede nel fattore “tempo” che ad essa viene dedicato: nella vita reale la tristezza si accompagna ad una chiusura della persona, che permette l’elaborazione della perdita o della speranza frustrata etc. Nel social network, per propria natura, il fattore temporale è determinato dal “Real Time”, periodo talmente breve da determinare una gestione anomala ed assolutamente inefficiente rispetto al reale sentimento connaturato nella tristezza. E’ quindi una reazione che nel network è difficilmente interpretabile.
  • Grrr: la rabbia è probabilmente è la reazione che si avvicina di più all’idea del “non mi piace”. Questa reazione viene fortunatamente utilizzata nella maggior parte dei casi rispetto al contenuto e non della pagina o del profilo dell’autore.

Le emozioni escluse sono, pertanto, il disgusto, il disprezzo e la paura, che, secondo gli psicologi del Data science center di Facebook, avrebbero potuto connotarsi, verosimilmente alla rabbia, quali espressioni del “non mi piace”.

Anche per questo motivo, la tendenza all’uso di emozioni positive segna maggiormente la condivisione dei contenuti e, con essa, l’indice di popolarità della pagina o del singolo post esaminato.