Psicologia della percezione

Il solo fatto di creare una forma fisica tenendo conto dell’effetto visivo che provocherà la sua percezione comporta, secondo Canter (1972 – Psychology for Architects), implicite assunzioni a livello scientifico e tecnico circa il rapporto tra le caratteristiche dello “stimolo fisico” e corrispondente “risposta psicologica”.

Il contributo della psicologia al processo della progettazione architettonica e del design viene visto in relazione a diversi momenti:
– ”ideazione”: utilizzo di alcune indicazioni generali provenienti dalla ricerca psicologica in materia di relazione tra caratteristiche architettoniche e comportamentali;
– “specificazione”: nell’individuazione delle influenze specifiche tra alcune caratteristiche fisiche dell’ambiente e gli aspetti psicologici altrettanto specifici (ad esempio tra ergonomia e rendimento lavorativo);
– “valutazione”: analisi dell’esistente anche sotto il profilo degli effetti psicologici conseguenti, per individuare eventuali inadeguatezze o possibili direzioni di miglioramento sia per il progetto che per quelli futuri.

Nella storia successiva della psicologia architettonica britannica, dagli anni ’80 vennero coniati sul mercato americano i relativi e più dinamici concetti di “relazione uomo/ambiente”, di “relazione persona/ambiente” e di “comportamento/ambiente”. Fino ad arrivare all’interpretazione odierna della nuova branca della “psicologia del design”, più spesso intenzionata nelle sue prime fasi ad esprimere le conseguenze negative dell’introduzione e dell’uso dei prodotti di design.

Dalle inflazionate teorie della scuola della Gestalt (parola tedesca tradotta genericamente con il termine “forma”), che nei suoi assunti stabilisce che l’uomo non percepisce un oggetto come la somma delle singole parti di cui è composto ma lo vede nella sua globalità, il contesto più contemporaneo interpreta gli oggetti secondo l’analisi semantica: i concetti di significante e di significato.

Il primo attribuisce le azioni possibili, il secondo le contestualizza nelle azioni quotidiane.

 

L’errore di credere che il design sia arte, porta la creazione dell’oggetto al “genio”, essendo l’opera d’arte l’espressione di un sentimento soggettivo che il genio, dotato di facoltà superiori, è capace di creare dal nulla, perpetuando con l’opera il suo pensiero.

Nel design industriale questo contributo illogico porta all’azzardo: l’azienda acquisterà l’idea, nell’incertezza che quel pezzo d’arte contribuisca a rafforzare o a deprimere il valore commerciale della gamma dei prodotti preesistenti. Dall’altra parte, il designer potrà proporre le proprie opere nella produzione di prodotti “in linea” con le proprie doti ed emotività artistiche e non con le caratteristiche della committenza. Domanda ed offerta si dovranno sempre più confrontare e trovare al di fuori del mercato dell’arte, nelle logiche delle discipline umanistiche e del branding.