Convenienza pubblicitaria

Le considerazioni sull’elasticità della domanda di un bene rispetto alla pressione pubblicitaria ed al rendimento degli investimenti in comunicazione favoriscono un’ulteriore analisi: essa riguarda l’elasticità della domanda rispetto al prezzo ed ai rendimenti degli investimenti pubblicitari.

Per spiegare in modo semplice questo principio, supponiamo che due aziende che producono beni diversi, intendano avere la stessa pressione pubblicitaria. Quali sarebbero i risultati attesi per entrambe?

Riprendiamo gli esempi dell’articolo precedente, adattandoli a questa ipotesi:

Formula di Dorfman e Steiner

In entrambi i casi e per ipotesi la pubblicità ha lo stesso impatto sulla quantità richiesta del bene. Pertanto i rendimenti saranno uguali per entrambe le aziende.

Tuttavia per ottenere la stessa domanda della seconda azienda, la prima (nell’esempio Rosacometta) dovrebbe aumentare il costo degli investimenti pubblicitari.

Ciò determina la tesi secondo la quale tanto più elastica è la domanda (es. Lagostina), tanto minore sarà il prezzo ottimale dell’investimento pubblicitario.

Il margine di profitto unitario deve essere più basso quando l’elasticità della domanda è più alta.

Nell’esempio la seconda azienda ha un margine di profitto più basso, quindi per essa i ricavi derivanti dalla pubblicità sono minori anche nel caso in cui si aumenti la quantità del bene venduta.

Ovvero:

il vantaggio marginale che si ottiene facendo pubblicità è tanto maggiore quanto è più grande il margine di profitto unitario.

Ciò si traduce nel completamento della “formula di Dorfman e Steiner”: a/R= ηL = η/ε

dove η è l’elasticità della domanda rispetto alle spese pubblicitarie ed ε l’elasticità rispetto al prezzo.

Per tale motivo si può ora comprendere il motivo per cui il rapporto tra spese pubblicitarie e fatturato, a/R, è molto diverso a seconda dei settori merceologici.

Per esempio, ha un valore inferiore allo 0,5% per il sale, è compreso tra l’8 e il 13% per i cereali della prima colazione, e può arrivare a circa il 50% per i dentifrici.

Al di là della difficoltà per molte aziende di calcolare correttamente il risultato della formula, la trattazione sulla pressione pubblicitaria permette di evidenziare la necessità per ogni impresa di indagare la tipologia di bene proposto sul mercato di riferimento, di valutarne e migliorarne la marginalità, anche attraverso azioni di marketing operativo, di approfondire la propria concorrenza e la struttura del mercato prima di investire in comunicazione, attivando successivamente gli strumenti di comunicazione pubblicitaria più consoni all’offerta promossa.24

Pressione pubblicitaria

Esiste un rapporto preciso tra le spese pubblicitarie ed i ricavi totali dell’impresa: essa viene espressa dalla formula  “a/R“, dove a è l’indice della spese pubblicitaria e R sono i ricavi totali.

Nelle leggi economiche le spese pubblicitarie influiscono sullo spostamento della curva di domanda del bene da parte del mercato di riferimento.

Come fare quindi a determinare ipoteticamente quanto capitale investire nella pubblicità?

La tipologia del bene può orientare l’impresa a determinare la pressione pubblicitaria da investire; assumendo per ipotesi semplificativa che la spesa pubblicitaria sia fissa, alcuni beni rispondono meglio di altri all’investimento in comunicazione:

  • nei “beni di ricerca”, la domanda risulta “elastica” rispetto alla pubblicità. Ciò significa che all’aumento della pressione pubblicitaria seguirà un aumento della quantità richiesta di quel bene. La curva della domanda è dunque sensibile all’investimento pubblicitario.

Un esempio può essere ricercato storicamente nelle campagne pubblicitarie di Lagostina: che nel 1956 segna una rivoluzione in cucina: la pentola a pressione.

La svolta nell’innovazione di prodotto nasce dal fondo Thermoplan®, che permette l’abbandono del ferro stagnato in favore dell’acciaio inossidabile. Come racconta l’azienda, “(…) si intensificano gli investimenti pubblicitari e lo slogan “Più sapore in metà tempo” lancia un prodotto rivoluzionario per quegli anni e per il futuro dell’azienda: la pentola a pressione. Ma la pubblicità che più di tutte è entrata nella testa degli italiani è quella realizzata nel 1969 da Osvaldo Cavandoli. Un curioso “Omino”, insoddisfatto e brontolone, diventa protagonista di uno dei caroselli più amati di sempre: La Linea”.

Domanda elastica alla pubblicità
  • nei “beni di fiducia”, al contrario, la domanda è “inelastica” rispetto alla pressione pubblicitaria. All’aumentare della pressione pubblicitaria non corrisponde un pari aumento della quantità richiesta del bene.

Un esempio di facile intuizione può essere dedotto dal settore della produzione di cemento: probabilmente la storia di Rosacometta, almeno ai “non addetti ai lavori”, sfugge, sebbene essa esista fin dal 1904, “dapprima nella fabbricazione di piccole macchine manuali per la produzione di blocchi, successivamente attiva nell’innovazione tecnologica del mercato attraverso la ricerca e la produzione di  macchine a vibrazione dinamica, che contribuirono ad una continua espansione aziendale”.

La pubblicità di Rosacometta andò a diminuire via via nel tempo, non già perché si ridussero i ricavi aziendali, bensì perché il guadagno marginale derivante dalla spesa pubblicitaria non giustificò più, da un certo punto della storia nazionale datato dagli anni ’60 in poi, il continuo incentivo alla pressione pubblicitaria.

Domanda anelastica alla pubblicità

La formula analizzata a/R indurrebbe a pensare che le aziende tenderanno a spendere di più in pubblicità nei mercati in cui la curva di domanda è più sensibile alle spese

I due esempi esposti potrebbero sembrare confermare questa ipotesi.

Tuttavia formula e ragionamento sono ancora incompleti.

Nel prossimo articolo verranno introdotte ulteriori considerazioni in merito alla convenienza pubblicitaria.

Competenze del design

In inglese la parola design può essere utilizzata sia come sostantivo che come verbo; assume significati come “intenzione”, “proposito”, “piano”, “intento”, “scopo”, “attentato”, “complotto”, “figura”, “struttura di base”, oppure (to design) “architettare”, “simulare”, “ideare”, “abbozzare”, “organizzare”, “agire in modo strategico”. Tutti questi significati sono in stretta relazione con i termini di “astuzia” e “insidia”.

Il termine deriva dal latino “signum” corrispondente all’italiano “segno”; dal punto di vista della radice etimologica la parola design significa “disegno”.

Ai giorni nostri i termini design, macchina, tecnica, ars e arte sono strettamente collegati l’uno all’altro.

Tuttavia, questa corrispondenza è stata negata per secoli (almeno sin dal Rinascimento).

Nell’età moderna si è operata una netta separazione fra il mondo delle arti e quello della tecnica e delle macchine; così anche la cultura è stata rigidamente scissa in due rami che si escludono a vicenda: quello scientifico-quantitativo e quello artistico-qualitativo. La parola “design” è andata a formare un ponte fra le due branche. Ciò è stato possibile proprio perchè il termine esprime una connessione interna fra arte e tecnica.

L’interdipendenza tra design ed impresa è un dato di fatto indeclinabile; un discorso odierno attorno al design non può prescindere da quello attorno al marketing, all’economia ed al mercato, dunque anche a quello della pubblicità, delle pubbliche relazioni e della comunicazione in generale.

Nel maggio 1998, ad un seminario presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Gaetano Pesce, scultore, designer ed architetto italiano di origine ligure, affermò che:

Il design è un’idea che, con l’ausilio della tecnologia, diventa prodotto, si interfaccia con il mercato e lo affronta con la forza dell’innovazione. Il design promuove l’incontro tra domanda ed offerta, nella misura in cui il disegno interpreta un bisogno: ma è anche immediatamente interpretabile dall’utente. Questo incontro produce educazione e cultura se il consumo diviene uno stimolo al miglioramento del benessere materiale ed intellettuale delle persone”.

In questa stretta interrelazione oggetti, persone, luoghi e modalità d’uso, azioni, atteggiamenti, filosofie, si fondono nella rappresentazione della “scena”: essa è il luogo della rappresentazione di un racconto, dove sono presenti tutti gli elementi utili allo sviluppo della narrazione: attori, spazio, etc.

La riconfigurazione della cultura Made In Italy deve quindi fondarsi su tre elementi chiave:

  • la connotazione storica del Made In Italy passato;
  • le nuove funzioni dei prodotti locali, distinguendone il senso geografico e la connotazione multiculturale che contraddistingue la nostra giovane nazione;
  • le nuove tecnologie ed i nuovi prodotti che ancora permangono nel nostro Paese e che ne determinano le attuali avanguardie.

Stile Vs. TU

Nel primo dopoguerra e per tutto il decennio degli anni cinquanta, avviene in Italia l’incrocio del mondo delle sartorie di moda con i mondi del cinema e delle arti.

Nasce il Made in Italy: la prima sfilata a Firenze a Palazzo Pitti della casa Giovanni Battista Giorgini nel1951 raccoglie il consenso degli acquirenti americani, a cui presenta 180 modelli provenienti dalle più celebri sartorie italiane.

Insieme alla moda, il termine “stile” viene approcciato anche dal mondo dell’architettura: alla casa si associa la stratificazione emotiva legata agli spazi, agli arredi ed agli oggetti, nelle sue relazioni interdisciplinari con la città ed i cambiamenti sociali, industriali e tecnologici.

In questo senso la cultura dell’abitare ha origini radicate proprio nel nostro Paese, dove circa sette famiglie su dieci sono proprietarie della casa in cui vivono; l’Italia diventò l’incubatore del design come lo intendiamo oggi.  Cioè, per dirla con Gio Ponti, quel “progetto di oggetti per il vivere quotidiano”.

Negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo approccio “taglia unica”: nel mondo della moda esso indica l’unità di misura usata per piccoli indumenti o per biancheria in tessuto elastico che si può adattare a persone che hanno taglia diversa (def. da https://dizionario.internazionale.it).

La TU (taglia unica) dovrebbe vestire dalla taglia 40 alla 44/46 italiana.

Il celebre video pubblicato in web da Buzz Feed, evidenzia che la “one size” non esiste realmente poiché è impossibile che lo stesso capo si possa adattare bene a persone con fisici diversi, che in questo modo rischiano di sentirsi inadeguate, “sbagliate” nel fatto di non poter indossare un abito dalle misure dichiarate come “universali”.

L’approccio “taglia unica” non tenendo conto dell’identità sociale e dell’individualità dei suoi acquirenti, abbassa la leva del prezzo del settore (qualunque esso sia) e riduce il valore percepito della qualità del prodotto. Inoltre, comunicando principalmente con un target medio giovane caratterizzato da bassa capacità di spesa, lascia scoperte alcune fette di mercato caratterizzate da una diversa propensione al consumo, mentre, per sua definizione, dovrebbe interfacciarsi ad ogni tipologia di consumatore.

Ciò che sta accadendo nel mondo dell’architettura, delle finiture d’interni e negli arredi è una sempre maggiore tendenza verso la “one size”: generi architettonici e stili abitativi confluiscono in parallelepipedi di cemento che scivolano l’uno sull’altro e nei materiali e nelle loro tecniche più facilmente commerciali, con conseguente guerra di prezzo globale ed il depauperamento dell’identità locale. Tale atteggiamento confluisce nel danno alla ripresa economica del settore edile, ingegneristico ed architettonico, nonché della produzione di manufatti dal “sapore artigianale” che invece dovrebbero designare il Made in Italy tanto ricercato oltre Oceano.

L’orientamento allo “stile”, al contrario, potrebbe progressivamente portare all’aumento delle barriere all’entrata nel nostro mercato ed alla ripresa economica delle realtà aziendale ormai perdute nel tempo.

 

Per approfondimenti:

Made in Italy:  http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma/made-in-italy/14094/default.aspx

One Size Fits All: https://www.youtube.com/watch?v=OapuLyWTvjQ