Psicologia del consumo

La psicologia “del consumo”, con l’ausilio delle neuroscienze, si occupano di analizzare i meccanismi psicologici attraverso i quali l’uomo sceglie tra una gamma di proposte sempre più illimitata, tra prodotti in competizione tra loro, nella realtà reale ed in quella virtuale.

Trattando il rapporto tra il comportamento d’acquisto e le motivazioni sottostanti, l’analisi riporta alla dialettica tra conscio ed inconscio, quindi tra aspetti controllati ed aspetti automatici e tra libero arbitrio e necessità di acquisto.
Lo studio del comportamento d’acquisto mette in gioco la rilevanza strategica della psicologia e, più in generale, della scienza della decisione.

 

Le decisioni rischiose sono determinate scegliendo tra alternative con esiti probabili o a lungo termine. Ne è un esempio l’acquisto dell’immobile. La misura del rischio è indicata dalla probabilità necessaria, ovvero da quell’indice di incertezza che si può calcolare in maniera corretta (nell’esempio dell’immobile, il tempo e l’importo di un mutuo agevola la definizione suddetta). In questi casi il rischio viene espresso dalla misura dell’incertezza, denominata “probabilità frequentistica”. Questa nozione di probabilità si basa sull’assunto che i processi che si sono manifestati in passato continueranno a manifestarsi nel futuro (ad esempio la fluttuazione dei tassi bancari ed i periodi storici del mercato immobiliare). Più il decisore nelle precedenti esperienze ha classificato in diverse categorie le situazioni da affrontare, maggiori saranno gli automatismi osservati nella decisione, i quali garantiscono un risparmio di risorse cognitive e di tempo nel prendere una decisione.

Emozioni in tempesta - foto di Jean Pierre Brungs

Sono note inoltre alcune strategie nel consumo razionale, quale ad esempio la “regola congiuntiva”, per la quale ad ogni attributo del prodotto o servizio desiderato viene attribuito un valore e fissato un limite di soglia per il rifiuto dell’offerta, o la strategia dell”eliminazione per aspetti”, per cui vengono eliminate tutte quelle alternative che non contengono quell’aspetto. Altre tattiche cognitive sono l’euristica, la procedura per esclusione e la focalizzazione, il principio di massimizzazione dell’utilità attesa e la regola della somma.

Anche le emozioni tuttavia hanno un ruolo paritario di primo piano nei processi d’acquisto:

possono favorire una semplificazione del dilemma, scartando le alternative che provocano qualche stato di malessere o che non rappresentano il massimo della felicità desiderata.

In secondo luogo le emozioni accompagnano ed influenzano ogni momento del processo decisionale; anche post acquisto, nella considerazione che la scelta effettuata procuri o meno piacere.

(Testo di approfondimento: R. Rumiati, Decidere – Ed. Il Mulino)

Psicologia della percezione

Il solo fatto di creare una forma fisica tenendo conto dell’effetto visivo che provocherà la sua percezione comporta, secondo Canter (1972 – Psychology for Architects), implicite assunzioni a livello scientifico e tecnico circa il rapporto tra le caratteristiche dello “stimolo fisico” e corrispondente “risposta psicologica”.

Il contributo della psicologia al processo della progettazione architettonica e del design viene visto in relazione a diversi momenti:
– ”ideazione”: utilizzo di alcune indicazioni generali provenienti dalla ricerca psicologica in materia di relazione tra caratteristiche architettoniche e comportamentali;
– “specificazione”: nell’individuazione delle influenze specifiche tra alcune caratteristiche fisiche dell’ambiente e gli aspetti psicologici altrettanto specifici (ad esempio tra ergonomia e rendimento lavorativo);
– “valutazione”: analisi dell’esistente anche sotto il profilo degli effetti psicologici conseguenti, per individuare eventuali inadeguatezze o possibili direzioni di miglioramento sia per il progetto che per quelli futuri.

Nella storia successiva della psicologia architettonica britannica, dagli anni ’80 vennero coniati sul mercato americano i relativi e più dinamici concetti di “relazione uomo/ambiente”, di “relazione persona/ambiente” e di “comportamento/ambiente”. Fino ad arrivare all’interpretazione odierna della nuova branca della “psicologia del design”, più spesso intenzionata nelle sue prime fasi ad esprimere le conseguenze negative dell’introduzione e dell’uso dei prodotti di design.

Dalle inflazionate teorie della scuola della Gestalt (parola tedesca tradotta genericamente con il termine “forma”), che nei suoi assunti stabilisce che l’uomo non percepisce un oggetto come la somma delle singole parti di cui è composto ma lo vede nella sua globalità, il contesto più contemporaneo interpreta gli oggetti secondo l’analisi semantica: i concetti di significante e di significato.

Il primo attribuisce le azioni possibili, il secondo le contestualizza nelle azioni quotidiane.

 

L’errore di credere che il design sia arte, porta la creazione dell’oggetto al “genio”, essendo l’opera d’arte l’espressione di un sentimento soggettivo che il genio, dotato di facoltà superiori, è capace di creare dal nulla, perpetuando con l’opera il suo pensiero.

Nel design industriale questo contributo illogico porta all’azzardo: l’azienda acquisterà l’idea, nell’incertezza che quel pezzo d’arte contribuisca a rafforzare o a deprimere il valore commerciale della gamma dei prodotti preesistenti. Dall’altra parte, il designer potrà proporre le proprie opere nella produzione di prodotti “in linea” con le proprie doti ed emotività artistiche e non con le caratteristiche della committenza. Domanda ed offerta si dovranno sempre più confrontare e trovare al di fuori del mercato dell’arte, nelle logiche delle discipline umanistiche e del branding.

Il pubblico digitale… digita.

Infiniti, nuovi modi per rapportarsi al mercato: molte aziende si sono arrese agli effetti inconvertibili del network digitale, in cui l’accelerazione tecnologica e l’iniziale carenza di formazione mirata, hanno concorso al determinare la necessità di interventi strutturati.

L’intreccio tra pubblicità, ovvero tra il “rendere pubblico”, e la “partecipazione del pubblico”, come anticipato negli articoli precedenti, ha reso indispensabile l’utilizzo di canali digitali che tuttavia necessitano di una costante pianificazione strategica di “digital marketing”.

In comunicazione è indubbio che chi parla, ovvero l’emittente, ha la costante necessità di conoscere il proprio destinatario, al fine di individuare l’obiettivo della conversazione, i contenuti, di gestirne il gergo in base al contesto ed anche al canale di comunicazione utilizzato.

Il secondo aspetto della comunicazione che stringe il cerchio sulla valenza di una strategia di marketing digitale, è determinato dagli “effetti di ritorno” del destinatario, che re-agisce alle dinamiche della conversazione: si parla quindi di Brand Reputation, di Reactions, di commenti e di altre tipologie di feed back in risposta ai messaggi lanciati in web.

La problematica più evidente e connaturata soprattutto nei social network, è proprio questo effetto boomerang che sovente accompagna l’immissione in web di determinati contenuti: il destinatario agisce in Real Time, sull’onda delle proprie emozioni, del proprio vissuto culturale e delle esperienze maturate individualmente; azioni, queste, che sovente scatenano un effetto domino sulle strategie aziendali messe in campo dall’impresa.

Il Content Marketing viene definito come “una tecnica di marketing volta a creare e distribuire contenuti pertinenti e di valore per attrarre, acquisire e coinvolgere una target audience chiara e definita – con l’obiettivo di guidare i clienti verso una azione redditizia” (fonte: Content Marketing Institute).

A contenuti di buona qualità corrisponde, attraverso la condivisione e le reazioni degli utenti, la creazione di una relazione di fiducia, dalla quale viene determinato un aumento della reputazione online e dell’autorevolezza del brand. 

La domanda primaria che attiene a qualunque strategia di marketing, anche basilare, è, infatti: 

“chi è il destinatario”? 

Il Content Marketing è un aiuto sostanziale, ma è bene chiarire che parlare alle aziende o ai consumatori finali richiede contenuti, linguaggi e forme completamente differenti.

Nel B2B: il business tra aziende. Tecnologia ed immagine.

Le aziende che operano nel modello B2B (Business to Business), sono quelle che offrono servizi ad altre aziende. 

Nel B2B, in particolare, il Content Marketing punta dritto alla “lead generation, ovvero sulla creazione di un numero limitato di contatti utili, cioè con un reale interesse verso i servizi proposti, creando e diffondendo contenuti di qualità in grado di educare, ispirare e convincere i potenziali buyer a diventare clienti. 

I contenuti di qualità sono quelli scritti da esperti che hanno una reale conoscenza dei problemi che incontrano i propri potenziali clienti nel raggiungimento dei loro obiettivi e sanno guidarli verso la risoluzione degli stessi. Questi contenuti creano una relazione di fiducia e permettono di generare lead di qualità pronte per un approccio commerciale. 

E’ importante citare uno studio del 2013 di SiriusDecisions, secondo il quale ad oggi “il 67% del processo di acquisto B2B viene condotto in autonomia online”. 

Uno studio di Google, conferma che i buyer B2B di tutto il mondo, prima di effettuare un acquisto consultano almeno dodici fonti informative online diverse. 

Lo sviluppo di un piano efficace di Content Marketing, in questo caso, deve mirare ad ottimizzare gli investimenti con l’obiettivo di accrescere il posizionamento aziendale nel web, di modo che l’impresa faccia parte di una di quelle dodici fonti.

Argomenti e “toni” (di voce e dei contesti) saranno quindi preferibilmente tecnici e formali.

Nel B2C: dall’azienda al cliente. Audience e pubblicità.

Le aziende che lavorano nel modello B2C (Business to Consumer), invece, si rivolgono direttamente al consumatore. 

Nel B2C i contenuti mirano all’engagement, ovvero, per definizione, al coinvolgimento ed all’attaccamento emotivo del consumatore bei confronti di una marca e/o di un prodotto.

L’intento è quello di stupire e coinvolgere l’audience, cercando di ottenere condivisioni, commenti ecc. e punta, sempre più, ad operare una conversione, attraverso opportune call to action per attività come l’iscrizione a una newsletter o a un sito, un nuovo like o follower, tutte attività che aiutano a conoscere meglio i clienti e ad aumentare le vendite.

Nel C2B: dal consumatore all’azienda. I primi Influencer.

Nel caso del modello C2B (Consumer to Business), è lo stesso consumatore ad offrire un determinato bene e/o servizio alle imprese.

Le aziende in questo caso guadagnano dalla disponibilità dei consumatori nel negoziare un prezzo e contribuire dati e informazioni; essoha una forte attinenza con gli strumenti digitali, giacchè si attua prevalentemente nel commercio elettronico ed attraverso siti intermediari (quali blog, forum etc.) che hanno il compito di smistare le offerte dei potenziali clienti alle varie aziende.

Il guadagno dei consumatori proviene dal pagamento ridotto per i prodotti o servizi, e la flessibilità delle transazioni creata dal mercato C2B.

Prossemica

Il rilievo assunto in letteratura dalla psicologia ambientale e dagli studi concernenti la dimensione spaziale, ha posto l’attenzione sui vari modi in cui le persone gestiscono ed usano lo spazio fisico-ambientale (il c.d. “comportamento spaziale”) e sulle “mediazioni cognitive” che le persone possono attivare.

Le specificità delle ambientazioni correlate nella progettazione e nel visual merchandising per prodotti italiani, è legata alla percezione delle forme plastiche ed al valore percepito di alto artigianato che ci contraddistingue.

Non a caso nei programmi televisivi le abitazioni americane vengono rappresentate da grandi cucine, atrii d’ingresso trionfali e soggiorni contornanti da parchi maestosi, mentre la nostra “Little Italy” è “little” anche negli spazi di casa, spesso avvertita claustrofobia dai popoli suddetti.

In questo senso, la disciplina della prossemica occupa un ruolo fondamentale nell’analisi della

comunicazione d’ambiente:

Zone prossemiche

Il termine inglese proxemics, derivato di proximity, “prossimità“, voleva indicare lo studio dello spazio umano e della distanza interpersonale nella loro natura di segno, indagando il significato che viene assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che questi interpone tra sé e gli altri, tra sé e gli oggetti, e, più in generale, il valore che viene attribuito da gruppi culturalmente o storicamente diversi al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo, su cui influiscono elementi di carattere etnologico e psicosociologici (rif. Dizionario Treccani).
Si distinguono quattro distanze prossemiche:

– Distanza intima:da 0 cm. a 45 cm.
– Distanza personale: da 45 cm. a 70 cm./1 m.
– Distanza sociale: da 120 cm. a 2 m.
– Distanza pubblica: da 2 m. ad oltre i 2 m.

Inoltre, lo spazio prossemico personale varia da cultura a cultura: è molto ridotto nei popoli dei paesi caldi (e tra i marocchini, gli arabi), in cui arriva quasi al contatto fisico; è, invece, molto ampia nei paesi freddi (ad es. tra gli inglesi è di circa 2 metri); da questa diversità, nascono dei problemi nei rapporti interetnici.

Saper progettare e costruire, soprattutto in merito al retail ed ai vari contesti del commercio, presuppone da parte dell’azienda e del progettista un’analisi attenta del contesto culturale in cui il punto vendita verrà collocato, ma anche della “cultura del consumo” che si desidera intraprendere:

prodotti italiani nell’export, soprattutto legati in qualche modo al valore artigianale percepito, possono essere tranquillamente collocati in spazi più piccoli, se l’intento del commerciante sarà quello di fare leva sul Made in Italy.

Si veda a titolo di esempio il brillante progetto di Eat’s per il “food shopping experience”: http://www.italiadeitalenti.it/interviste/eats-dove-la-vita-va-degustataeat's Milano