Open Space: sì o no?

Gli edifici aziendali sono il risultato di un compromesso tra i bisogni effettivi di un’organizzazione e le caratteristiche funzionali degli spazi. Il successo di questo compromesso dipende da una corretta considerazione delle relazioni tra: le attività lavorative nel quotidiano, le risorse umane  e l’ambiente.

Il modo di lavorare è differente per ogni organizzazione e questo dipende ovviamente dalle attività, dal settore, ecc. però è innegabile il fatto che molto spesso nel corso degli anni gli spazi rimangono e vengono considerati sempre nella stessa modalità con cui erano stati progettati inizialmente, a prescindere dalle diverse culture d’impresa, a prescindere dai cambiamenti nel tempo nelle modalità di lavoro, ecc.

La relazione tra l’ambiente di lavoro e il comportamento delle risorse umane appartiene alla tradizione scientifica della psicologia sociale e ambientale, ma in tempi recenti ha indotto a ulteriori approfondimenti e indagini, dettate per esempio dalle imposizioni legislative in tema di sicurezza, dalla crescente consapevolezza e conoscenza da parte dei propri collaboratori in tema di comfort ambientale, dalla crescente ricerca della produttività da parte delle organizzazioni. A tutto ciò inoltre si aggiunge anche l’approccio organizzato del facility management.

Questi elementi inducono in qualche modo a dover soffermarci per fare un approfondimento sul tema della RELAZIONE INDIVIDUO-AMBIENTE-COMPORTAMENTO, che va al di là delle proprietà fisiche del luogo, ma che invece abbraccia ambiti psicologici e comportamentali. 

Il tema diventa dunque complesso, perché da un lato include concetti fisici e psicologici, ma dall’altro necessita di una forte attenzione sul tema gestionale.

La risposta alle esigenze di FLESSIBILITÀ’ e RAZIONALITÀ’ nell’utilizzo degli spazi, ha portato alla diffusione di SOLUZIONI OPEN SPACE all’interno delle organizzazioni, orientate alla CONDIVISIONE e alla COLLABORAZIONE. 

Infatti, per diversi motivi, la collaborazione tra le persone è diventata il PRINCIPALE MOTORE DI PROGRESSO e INNOVAZIONE. 

Gli Open Space portano con sé aspetti positivi, ma anche negativi, come per esempio un eccesso di interazione e l’assenza di privacy pagano un pesante tributo in termini di creatività, produttività, coinvolgimento e benessere dei lavoratori. La mancanza di privacy è uno dei più frequenti motivi di insoddisfazione delle persone, anche a seguito del sempre più diffuso ricorso all’open space per l’organizzazione dello spazio. 

A priori non è possibile dire se gli ambienti Open Space siano negati o meno all’interno della propria realtà organizzativa, per poter favorire ambienti produttivi e performanti, nonché attrattivi per le proprie risorse umane. E’ sempre necessario effettuare una valutazione strategica che possa indicare la strada da seguire per “perfezionare le modalità di collaborazione”.

Le organizzazioni non sono tutte uguali, ognuna ha le proprie peculiarità e caratteristiche e sulla base di questo sarà  necessario creare spazi in cui le persone si sentono a proprio agio nella modalità di lavoro, condivisa e non. 

Nel mondo del lavoro la correlazione tra relazioni umane e performance è sempre attivo e il ragionamento su come strategicamente disegnare gli spazi aziendali è d’obbligo se si vuole sviluppare il proprio business aziendale. 

OPEN SPACE o UFFICI SINGOLI? POSTI ASSEGNATI o POSTI FLESSIBILI?

OPEN SPACE & POSTI ASSEGNATI:

Efficienza nel lavoro di gruppo 

Produttività nel team

Focalizzazione sul lavoro di gruppo

Sviluppo di progetti

OPEN SPACE & POSTI FLESSIBILI

Scambio e interazione

Serbatoio di idee

Creatività

Contaminazione

Maggiore innovazione

UFFICI SINGOLI & POSTI ASSEGNATI

Produttività individuale

Concentrazione

Rispetto dei tempi

Focalizzazione sui compiti

UFFICI SINGOLI & POSTI FLESSIBILI

Sviluppo e creazione di prototipi

Creatività 

Brainstorming

A differenze dei classici spazi aziendali, gli Open Space nascono soprattutto con l’obiettivo di favorire CONDIVISIONE, COLLABORAZIONE e SCAMBIO DI IDEE. 

E allora … 

perchè SI agli OPEN SPACE?

E’ più facile percepire la vicinanza dei propri colleghi costruendo integrazione, pur mantenendo ruoli e responsabilità, destrutturando gerarchie e aumentando la motivazione.

Possibilità di scambio tra team di lavoro diversi. Competenze, attività, esperienze di differenti comparti aziendali diventano un valore condiviso.

Prossimità e condivisione dello spazio favoriscono l’interazione e la socializzazione tra le persone.

Apertura degli spazi = aumento del senso di fluidità e dinamismo, le comunicazioni sono facilitate, le informazioni e le idee circolano più velocemente;

perchè NO agli OPEN SPACE?

Assenza o scarsissima protezione della privacy

Sovraccarico sensoriale: la condivisione dello spazio sottopone le persone a continui stimoli sonori e visivi

Difficoltà di concentrazione, facilità a perdere tempo e aumento dello stress

Possibilità di attriti, le mura separano ma a volte possono svolgere un ruolo di protezione e mediazione tra le persone.

A prescindere però dalla tipologia di spazio strutturato in azienda, una cosa è certa: la condizione che influenza significativamente il COINVOLGIMENTO e l’IMPEGNO delle proprie risorse umane e, quindi di conseguenza, il loro livello di SODDISFAZIONE per il proprio posto di lavoro e l’ATTACCAMENTO alla propria azienda è a volte legato, non tanto alla tipologia di spazio, ma alla mancanza di poter scegliere la modalità di lavoro, volta a trasmettere SERENITÀ’ e CONCENTRAZIONE ottimale.

La scelta dell’emozione

Il tema centrale più attuale che plasma i grandi obiettivi del marketing ed i risultati sottesi alla strategia aziendale è connaturato nell’esplorazione delle emozioni che l’azienda vuole, deve, comunicare. 

Il marketing emozionale, come già detto, gioca un ruolo sempre più rilevante nel panorama commerciale odierno: senza di esse l’uomo non sarebbe più in grado di decidere, quindi di agire.

Nelle scelte di consumo il sistema emotivo, automatico e inconscio, risulta molto più celere del  sistema razionale, controllato e conscio. 

I marketer più aggiornati si servono di inneschi emotivi nelle loro campagne: il cardine risiede nei valori che l’impresa decide di perseguire, nella mission e nella vision aziendale e nelle identità o modalità d’uso delle linee di prodotti e servizi erogate.

Le emozioni sono il punto di partenza per la creazione o la gestione di un marchio, che sappia generare maggiore empatia con i consumatori. Se l’emozione è positiva, si trasformerà in una sensazione piacevole, portando la persona ad avere forti associazioni con il marchio, che lo farà durare nel tempo e ci permetterà di raggiungere la tanto attesa fedeltà del cliente.

Solo successivamente all’identificazione del marchio, le emozioni devono essere analizzare e sintetizzate con coerenza nel marketing mix e nelle fasi di comunicazione dell’azienda: dalla pubblicità, nei punti vendita, nei processi dei centri di assistenza al cliente, dall’uso del prodotto e dalle risorse umane che si interfacciano a nome dell’impresa verso il proprio mercato di riferimento. 

Di fatto, esistono ancora molteplici definizioni del termine emozione che comportano un certo grado di accordo e di disaccordo tra gli autori; una delle teorie maggiormente utilizzate, sebbene non troppo recente, è estrapolata da R. Plutchik, creatore della “ruota delle emozioni”.

Il suo saggio rimane per ora la rassegna più dettagliata delle ricerche neurobiologiche sulle emozioni:  

L’emozione è un insieme complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, mediate da sistemi neurali/ormonali, che possono

  • dare origine a esperienze affettive come sensazioni di attivazione e di piacere/dispiacere; 
  • generare processi cognitivi come effetti percettivi emotivamente rilevanti, valutazioni, processi di etichettamento; 
  • attivare aggiustamenti fisiologici di vasta portata alle condizioni elicitanti; 
  • portare a un comportamento che è spesso, ma non sempre, espressivo, finalizzato e adattativo.

Nella sua ruota, Plutchik compone otto emozioni primarie, cioè quelle innate e presenti in ogni popolazione, ed otto emozioni secondarie, originate dalle primarie ma derivate dall’interazione sociale e dalla cultura di appartenenza. Ciascuna di esse è associata ad un colore, che rappresenta la sua intensità, identificando dapprima le emozioni primarie per poi spiegare le emozioni miste od i miscugli di emozioni che derivano da esse. 

In questo articolo verranno anzitutto approfondite le emozioni primarie, che in anni più recenti (2008), P. Ekman, psicologo americano, definì così:

  • rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare talvolta anche attraverso l’aggressività;
  • paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;
  • tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto. 

Questo primo insieme di emozioni primarie vengono spesso utilizzate nelle campagne che  promettono ai clienti che un prodotto/servizio specifico permetterà di evitare o superare la situazione che temono. 

I nordamericani parlano spesso di Fear of Missing Out (FOMO): è la paura di perdersi qualcosa, rimanere fuori dal giro. I marketer fanno leva su questa sensazione per indurre gli utenti all’acquisto. 

Per esempio menzionando un’offerta che scadrà presto o sottolineando i benefici esclusivi di cui godono gli iscritti a un certo programma fedeltà. 

Lo stesso meccanismo viene spesso ripreso in un’emozione secondaria, quale il senso di colpa, quando il prodotto o servizio offerto può alleviare il problema sul quale l’utente si è concentrato. Un esempio sono le campagne promozionali per il dimagrimento.

  • Gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;
  • sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia. 

Questo secondo insieme genera stati d’animo positivi, dai quali perviene una miscellanea generante la fiducia, sentimento vitale e fondamentale per qualsiasi relazione a lungo termine. 

Un marcato esempio di facile interpretazione si rileva nei servizi che garantiscono modalità di pagamento e di spedizione sicure e tempestive, oppure nella ripresa di recensioni positive e di altre testimonianze sulla bontà del prodotto acquistato. 

Per generare fiducia, trasparenza e chiarezza sono elementi essenziali per tutte le comunicazioni e le attività promozionali. Tuttavia i valori sono soggettivi e sono alla base delle nostre priorità e delle nostre scelte. 

Un cliente motivato all’acquisto dovrà pensare che sta facendo un affare, ovvero vorrà percepire un valore. Le promo “paghi due prendi tre” o le pratiche di rimborso si propongono di garantire un valore reale al cliente. 

Sospeso tra questo secondo insieme di emozioni ed il prossimo, a seconda dell’uso di concetti significativi espressi nella comunicazione, c’è il senso di appartenenza, sul quale si radica il desiderio di essere parte di una comunità, contraddistinta da valori sociali condivisi. 

A questa tipologia di comportamento corrisponde frequentemente il ricorso al “social media marketing”, ovvero alla creazione ed alla gestione di contenuti e campagne incentrate sui social network che si propongono la condivisione di una visione collettiva tesa a rafforzare la relazione tra clienti e marchio. 

Le aziende coltivano il senso di appartenenza dei clienti facendoli sentire membri di una grande famiglia (gioia) oppure di una cerchia esclusiva (distacco dalle altre cerchie).

Iconografia Riva, esclusiva Sofia Loren
  • Disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e disdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;
  • disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da una comunicazione corporale specifica.

Un largo esempio è l’utilizzo della leva della competizione: essa è una sensazione negativa ma che ci motiva perché ci spinge ad agire per raggiungere o superare gli altri. I clienti ricevono la sensazione che ciò che è stato acquistato li renderà migliori dei loro pari.

Un esempio tipico è certamente espresso dai vari prodotti di lusso, ma tale feed back si può adattare a qualsiasi oggetto.

Similmente questo tipo di emozioni viene spesso ripreso anche nella ricerca della propria leadership dall’utente: essa contraddistingue quei consumatori che ricercano l’innovazione e che desiderano provare dei prodotti per primi per poi parlarne esprimere il proprio, immediato, giudizio.

E’ pertanto necessario evidenziare la novità del prodotto; occasionalmente l’azienda propone una sorta di lista d’attesa a cui iscriversi via mail per essere avvisati prima degli altri, o contraddistingue la linea di prodotto anticipatamente al lancio sul mercato quale “limited edition”. 

In una prima analisi, dunque, sarebbe sufficiente iniziare a chiarire a quali valori si ispira il marchio aziendale e definire, pertanto, quale tipo di relazione l’azienda si propone di instaurare e mantenere con il proprio targetgroup. 

Invero, questo tipo di riflessione dovrebbe identificare l’emozione primaria alla quale il “sistema impresa” (di cui il marketing fa parte integrante), si vorrà ispirare in tutte le scelte da compiersi. 

Per ulteriori approfondimenti:

Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione. 

Il contagio emotivo.

https://www.youtube.com/watch?v=w9AHB0eJ8oc
Un cuore… di panna, negli anni ’80. Ed oggi?

Diverse piattaforme di social monitoring tengono traccia del sentimenti connessi ai contenuti basandosi spesso sulla ruota delle emozioni di Plutchik

Nonostante l’aiuto tecnologico di sistemi di analytics e reporting strutturati che permettono di raccogliere e analizzare in modo completo e sistematico le informazioni provenienti dai social, ulteriori sondaggi hanno tuttavia riscontrato la scarsa presenza di attività di analisi e di inclusione delle informazioni e dei feedback raccolti tramite social media all’interno dei processi decisionali aziendali. 

Uno dei social network comunemente utilizzato nel nostro Paese, Facebook, ha introdotto nel 2016 e tra i primi alcuni pulsanti, denominati ”Reactions” (ovvero “reazioni”), che consentono all’utente di esprimere le proprie emozioni relativamente ai contenuti postati ed agli eventuali commenti. 

Già agli inizi del 2012 i ricercatori del Data science center di Facebook avevano eseguito due esperimenti: nel primo test i soggetti del gruppo sperimentale erano stati esposti a contenuti positivi nel flusso delle notizie. In un secondo esperimento a contenuti negativi. 

Il risultato evidenzia un chiaro “contagio emotivo” tra persone. 

Inoltre è stata dimostrata la correlazione tra contenuti ad alto impatto emotivo, come le foto e i video, e la “viralità” nel social network.

Questo risultato ha avvalorato la strategia degli algoritmi, quali formule che condizionano sia le emozioni e il comportamento umano, che intere economie e strategie di marketing. 

L’algoritmo elabora quali contenuti mostrate nel flusso di notizie, determinando quali contenuti mostrare. Conseguentemente lo stesso influenza il budget delle aziende che usano il social network per farsi pubblicità.

Fanpage Karma, ottimo tool di analisi, permette una snella statistica delle emozioni più gettonate:

  • per le pagine di Facebook, la reazione “Love” è la più cliccata (45%) dopo il vecchio “Like”, seguiti da “Haha” 23%, “Wow” 13%, “Sorry” 10% e “Anger” 10%;
  • sul singolo post le reazioni si suddividono invece in “Love” 28% (ancora una volta la più utilizzata), ma a breve distanza segue il suo opposto, la rabbia “Anger” con ben il 27%; poi “Haha” 17%, “Sorry” 15% ed infine il “Wow” con il solo 12%.

La questione più interessante è che i post con reaction ottengono una portata di 2-3 volte superiore a quelli con solo i Like in termini di condivisione:

i post con i “Love” vengono condivisi 5.5 volte più spesso, i link con i “Sorry” 4 volte più spesso, i video con “Wow” e “Haha” vengono visti 6.5 volte più spesso ed i post “Angry” commentati il 50% in più.

E’ però importante notare che i Reactions hanno la pretesa di sintetizzare le emozioni riconosciute universalmente, dette anche “emozioni primarie” le quali, secondo vari studiosi, sarebbero sette, come già descritto nell’articolo “La scelta dell’emozione”.

Tuttavia i pulsanti in dotazione in Facebook ne escludono alcune, generalizzando il significato che l’utente vorrà esprimere:

  • Like: oltre a significare “mi piace” il contenuto, sovente viene utilizzato per segnalare all’autore del che quel post è stato visionato. Spesso quindi la reazione non giustifica l’effettiva lettura del testo.

L’elevato numero di like ad una pagina o ad un post, giustifica ormai nel panorama comune l’indice numerico di popolarità dell’autore e/o dell’azienda.

  • Love: esprime qualcosa di positivo e viene utilizzato in relazione a contenuti ritenuti particolarmente emozionanti, talvolta semplicemente per evidenziare un sentimento di gratitudine od affetto per la persona che ha postato un dato argomento;
  • Haha: la gioia esprime una reazione a diversi vissuti. Probabilmente quello più comune è di divertimento per una frase o un post piacevole, allo stesso tempo si è notato che più recentemente il suo impiego può rilevare, al contrario, una reazione satirica al contenuto.

Rispetto alle emozioni primarie, mancano infatti i bottoni della : per tale motivo le reazioni disponibili assumono significati talvolta opposti al loro senso originale.

  • Wow: la sorpresa, per definizione, è uno stato emotivo conseguente ad un evento inaspettato o contrario all’aspettativa di chi lo sperimenta. Dura pochi istanti ed è in genere seguita da paura o gioia. Il suo utilizzo in Facebook lega questa reazione frequentemente alla curiosità più che allo stupore;
  • Sigh: la psicologia illustra come la tristezza venga ancestralmente associata alla riflessione. Per questa reazione, semmai, il problema interpretativo risiede nel fattore “tempo” che ad essa viene dedicato: nella vita reale la tristezza si accompagna ad una chiusura della persona, che permette l’elaborazione della perdita o della speranza frustrata etc. Nel social network, per propria natura, il fattore temporale è determinato dal “Real Time”, periodo talmente breve da determinare una gestione anomala ed assolutamente inefficiente rispetto al reale sentimento connaturato nella tristezza. E’ quindi una reazione che nel network è difficilmente interpretabile.
  • Grrr: la rabbia è probabilmente è la reazione che si avvicina di più all’idea del “non mi piace”. Questa reazione viene fortunatamente utilizzata nella maggior parte dei casi rispetto al contenuto e non della pagina o del profilo dell’autore.

Le emozioni escluse sono, pertanto, il disgusto, il disprezzo e la paura, che, secondo gli psicologi del Data science center di Facebook, avrebbero potuto connotarsi, verosimilmente alla rabbia, quali espressioni del “non mi piace”.

Anche per questo motivo, la tendenza all’uso di emozioni positive segna maggiormente la condivisione dei contenuti e, con essa, l’indice di popolarità della pagina o del singolo post esaminato. 

La ricerca di emozioni.

Il contenitore Carosello: felicità, benessere e… pubblicità.

Pubblicità e consumi sono fenomeni strettamente connessi:

il comportamento dei consumatori infatti è basato solo in minima parte su processi razionali.

Altri “meccanismi” vengono generato dai cosiddetti “neuroni specchio”: scoperti all’inizio degli anni ’90 dallo scienziato G. Rizzolatti, essi sono cellule presenti nel cervello che si attivano non solo quando si esegue un’azione, ma in modo analogo anche quando a compierla è un’altra persona. 

La “pubblicità” propone  racconti  e  rappresentazioni  delle  marche  e dei prodotti che le persone usano o useranno, allo scopo di orientarne le scelte individuali.

Tale approccio, dunque, integra fenomeni  psicofisiologici  e  neuropsicologici  (interni, non  direttamente  osservabili)  con  fenomeni  psicologici,  nella  narrazione  che  la persona fa dell’esperienza di fruizione ed elaborazione del messaggio (l’esterno, l’osservabile). 

Alcune ricerche del neuromarketing hanno dimostrato che lo spettatore era in grado di identificare alcuni marchi quando il prodotto pubblicizzato veniva integrato nella trama di un racconto,  assumendo un significato autonomo all’interno della narrazione.

Tali analisi hanno infatti confermato l’importanza di un logo nell’evocazione dell’immagine del brand (ad esempio Coca-Cola, Disney o Apple vengono richiamati alla mente e influenzano le nostre percezioni anche quando non li notiamo consapevolmente).

I racconti degli anni ’60: il pupazzo Provolino impersonato da Raffaele Pisu.

Il “neuromarketing”, dunque, indaga le percezioni inconsce dei consumatori nelle loro manifestazioni. Esso è un ambito della psicologia applicata che analizza l’impatto del marketing e della comunicazione sulla mente dei consumatori, misurando le reazioni del cervello dei consumatori a determinati stimoli visivi/uditivi, esplorando la connessione tra emozioneed attività elettromagnetica del cervello.

Le informazioni generate da questi test vengono spesso sfruttate a livello di marketing dalle aziende con l’obiettivo di generare “cose” che emozionino il più possibile il consumatore.

La capacità di un’azienda di costruirsi un’immagine distinta e una personalità forte consente di orientare verso di sé i desideri dei consumatori che si identificano o aspirano alla visione proposta.

Ad oggi le applicazioni del neuromarketing si estendono a sei ambiti particolari:

  • Branding: attraverso la misurazione del grado di relazione tra utenti ed il brand, ovvero l’analisi dell’idea che il consumatore ha di un’azienda;
  • Product design: nella misurazione della reazione dei consumatori a particolari prodotti e innovazioni.
  • Pubblicità: l’osservazione della reazione del pubblico ad una pubblicità, con lo scopo di avere  feedback certi su come rendere la pubblicità più accattivante.
  • Vendita nei negozi:il posizionamento dei prodotti all’interno di un negozio allo scopo di influenzare le scelte di consumo; l’analisi dello stesso ambiente, quali luci, i colori utilizzati e tutti gli altri aspetti che possono influenzare la propensione all’acquisto.
  • User Experience di un sito web nell’influenza delle emozioni di un visitatore.
  • Intrattenimento: film, serie TV, libri, musica.

Per ulteriori approfondimenti:

Lindstrom M., Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto, Apogeo Editore

Gallucci F., Marketing emozionale e neuroscienze, Egea

Babiloni F., Meroni V., Soranzo R., Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali, Springer Verlag

Morin C., Neuromarketing: the new science of consumer behaviour, www.academia.edu