Confraternite italiane

Il valore delle #relazioni

La comunicazione si trasforma in cultura, la cultura si diffonde: cambia il modo di pensare, cambia il modo di parlare, il mondo diventa una rete.

La relazione è innovazione e l’innovazione amplifica le relazioni, le quali producono conoscenza, oggi condivisa ed in tempo reale.

La pratica di creare una rete di relazioni è molto diffusa tra le imprese e i professionisti da molto tempo prima della nascita di internet. Una pratica che si perde nella notte dei tempi, quando il commercio era circoscritto a comunità locali e si basava sulle relazioni personali all’interno della comunità. Ma con l’industrializzazione, la globalizzazione e l’apertura dei mercati a livello internazionale si è venuti a creare un contesto di lavoro nuovo e diverso in cui la competizione la fa da padrona. Contesto che abbiamo dovuto imparare a conoscere, attraverso un continuo apprendimento, che non ha mai fine.

In questo contesto imprese e professionisti si trovano a operare in situazioni in cui la relazione e la conversazione sono in grado di determinare il successo o il fallimento di un’attività, proprio perché la conoscenza, vera o falsa che sia, si diffonde molto rapidamente attraverso il mondo virtuale.

Attraverso la rete virtuale le conversazioni circolano inevitabilmente con un flusso di informazioni che prescinde dalla volontà dell’impresa. La conversazione non è più controllabile tramite le classiche azioni di pubbliche relazioni. Ora non sono più sufficienti a creare il consenso attorno ad un marchio, un prodotto, un servizio.

L’impresa non è più al centro di un sistema, ma è parte di una rete.

Costruire relazioni per il proprio business, come agire?

Le relazioni di business riguardano le persone, riguardano l’attività di un gruppo che si riconosce e agisce attorno ad obiettivi comuni.

In questo contesto mutevole e fragile ci muoviamo insieme … dai valori di Prossemica è nata la volontà di creare una Confraternita in stile Made in Italy.

Lo scopo è quello di creare conoscenza ed opportunità attraverso la condivisione di competenze, esperienze e relazioni reciprocamente proficue per esaltare le proprie peculiarità e condividere nuove iniziative, nuove collaborazioni, nuove interazioni, nuove conoscenze, nuovi supporti, nuove idee. 

Costruire relazioni di business non è solo per le grandi imprese, ma è per tutti.  Come in ogni relazione, ascoltare e partecipare sono gli elementi essenziali. La partecipazione diventa ancora una volta uno scambio di stimoli, risposte e proposte tra le parti, sia degli individui come singoli che come rappresentanti di un’azienda. 

Al centro ci sono sempre le relazioni.

Le relazioni generano capitale sociale, che è determinato dalla condivisione e dal dialogo, dall’ascolto e dalla partecipazione di ciascuno dei membri. Il rapporto si basa sulla reciprocità ed equità tra le parti. 

Un nuovo contatto si trasforma in relazione quando si sviluppa fiducia e credibilità. Questo è ciò che accade nella Confraternita.

Nella Confraternita le relazioni creano valore nell’ecosistema dell’innovazione, ma attraverso lo stile che conosciamo meglio, il Made in Italy.

Per il resto del mondo l’Italia è un vero e proprio enigma, perchè è l’unico sistema Paese nel quale si riesce a generare valore nonostante le situazioni di caos”  – Philip Kotler

L’Italia è un grande team, creativo, personale, con la propensione alla “personalizzazione”, flessibile, comunicativo, mobile, ma legato alle tradizioni e al territorio; innovativo e risolutivo, “geniale” in tal senso: vi si trovano sempre soluzioni (anche bizzarre) per affrontare ogni tipo di situazione.

Lo stile italiano è quello di tessere relazioni che creano conoscenze e attraverso la collaborazione nascono i maestri dell’innovazione. Lo sviluppo dell’innovazione parte con l’identificazione di un’opportunità e oggi le opportunità  si muovono attraverso la Confraternita, un’infrastruttura sociale esclusiva tutta italiana.

“La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto.” – Lumine Fidei, 2013 – Papa Francesco.

Il contagio emotivo.

https://www.youtube.com/watch?v=w9AHB0eJ8oc
Un cuore… di panna, negli anni ’80. Ed oggi?

Diverse piattaforme di social monitoring tengono traccia del sentimenti connessi ai contenuti basandosi spesso sulla ruota delle emozioni di Plutchik

Nonostante l’aiuto tecnologico di sistemi di analytics e reporting strutturati che permettono di raccogliere e analizzare in modo completo e sistematico le informazioni provenienti dai social, ulteriori sondaggi hanno tuttavia riscontrato la scarsa presenza di attività di analisi e di inclusione delle informazioni e dei feedback raccolti tramite social media all’interno dei processi decisionali aziendali. 

Uno dei social network comunemente utilizzato nel nostro Paese, Facebook, ha introdotto nel 2016 e tra i primi alcuni pulsanti, denominati ”Reactions” (ovvero “reazioni”), che consentono all’utente di esprimere le proprie emozioni relativamente ai contenuti postati ed agli eventuali commenti. 

Già agli inizi del 2012 i ricercatori del Data science center di Facebook avevano eseguito due esperimenti: nel primo test i soggetti del gruppo sperimentale erano stati esposti a contenuti positivi nel flusso delle notizie. In un secondo esperimento a contenuti negativi. 

Il risultato evidenzia un chiaro “contagio emotivo” tra persone. 

Inoltre è stata dimostrata la correlazione tra contenuti ad alto impatto emotivo, come le foto e i video, e la “viralità” nel social network.

Questo risultato ha avvalorato la strategia degli algoritmi, quali formule che condizionano sia le emozioni e il comportamento umano, che intere economie e strategie di marketing. 

L’algoritmo elabora quali contenuti mostrate nel flusso di notizie, determinando quali contenuti mostrare. Conseguentemente lo stesso influenza il budget delle aziende che usano il social network per farsi pubblicità.

Fanpage Karma, ottimo tool di analisi, permette una snella statistica delle emozioni più gettonate:

  • per le pagine di Facebook, la reazione “Love” è la più cliccata (45%) dopo il vecchio “Like”, seguiti da “Haha” 23%, “Wow” 13%, “Sorry” 10% e “Anger” 10%;
  • sul singolo post le reazioni si suddividono invece in “Love” 28% (ancora una volta la più utilizzata), ma a breve distanza segue il suo opposto, la rabbia “Anger” con ben il 27%; poi “Haha” 17%, “Sorry” 15% ed infine il “Wow” con il solo 12%.

La questione più interessante è che i post con reaction ottengono una portata di 2-3 volte superiore a quelli con solo i Like in termini di condivisione:

i post con i “Love” vengono condivisi 5.5 volte più spesso, i link con i “Sorry” 4 volte più spesso, i video con “Wow” e “Haha” vengono visti 6.5 volte più spesso ed i post “Angry” commentati il 50% in più.

E’ però importante notare che i Reactions hanno la pretesa di sintetizzare le emozioni riconosciute universalmente, dette anche “emozioni primarie” le quali, secondo vari studiosi, sarebbero sette, come già descritto nell’articolo “La scelta dell’emozione”.

Tuttavia i pulsanti in dotazione in Facebook ne escludono alcune, generalizzando il significato che l’utente vorrà esprimere:

  • Like: oltre a significare “mi piace” il contenuto, sovente viene utilizzato per segnalare all’autore del che quel post è stato visionato. Spesso quindi la reazione non giustifica l’effettiva lettura del testo.

L’elevato numero di like ad una pagina o ad un post, giustifica ormai nel panorama comune l’indice numerico di popolarità dell’autore e/o dell’azienda.

  • Love: esprime qualcosa di positivo e viene utilizzato in relazione a contenuti ritenuti particolarmente emozionanti, talvolta semplicemente per evidenziare un sentimento di gratitudine od affetto per la persona che ha postato un dato argomento;
  • Haha: la gioia esprime una reazione a diversi vissuti. Probabilmente quello più comune è di divertimento per una frase o un post piacevole, allo stesso tempo si è notato che più recentemente il suo impiego può rilevare, al contrario, una reazione satirica al contenuto.

Rispetto alle emozioni primarie, mancano infatti i bottoni della : per tale motivo le reazioni disponibili assumono significati talvolta opposti al loro senso originale.

  • Wow: la sorpresa, per definizione, è uno stato emotivo conseguente ad un evento inaspettato o contrario all’aspettativa di chi lo sperimenta. Dura pochi istanti ed è in genere seguita da paura o gioia. Il suo utilizzo in Facebook lega questa reazione frequentemente alla curiosità più che allo stupore;
  • Sigh: la psicologia illustra come la tristezza venga ancestralmente associata alla riflessione. Per questa reazione, semmai, il problema interpretativo risiede nel fattore “tempo” che ad essa viene dedicato: nella vita reale la tristezza si accompagna ad una chiusura della persona, che permette l’elaborazione della perdita o della speranza frustrata etc. Nel social network, per propria natura, il fattore temporale è determinato dal “Real Time”, periodo talmente breve da determinare una gestione anomala ed assolutamente inefficiente rispetto al reale sentimento connaturato nella tristezza. E’ quindi una reazione che nel network è difficilmente interpretabile.
  • Grrr: la rabbia è probabilmente è la reazione che si avvicina di più all’idea del “non mi piace”. Questa reazione viene fortunatamente utilizzata nella maggior parte dei casi rispetto al contenuto e non della pagina o del profilo dell’autore.

Le emozioni escluse sono, pertanto, il disgusto, il disprezzo e la paura, che, secondo gli psicologi del Data science center di Facebook, avrebbero potuto connotarsi, verosimilmente alla rabbia, quali espressioni del “non mi piace”.

Anche per questo motivo, la tendenza all’uso di emozioni positive segna maggiormente la condivisione dei contenuti e, con essa, l’indice di popolarità della pagina o del singolo post esaminato. 

La ricerca di emozioni.

Il contenitore Carosello: felicità, benessere e… pubblicità.

Pubblicità e consumi sono fenomeni strettamente connessi:

il comportamento dei consumatori infatti è basato solo in minima parte su processi razionali.

Altri “meccanismi” vengono generato dai cosiddetti “neuroni specchio”: scoperti all’inizio degli anni ’90 dallo scienziato G. Rizzolatti, essi sono cellule presenti nel cervello che si attivano non solo quando si esegue un’azione, ma in modo analogo anche quando a compierla è un’altra persona. 

La “pubblicità” propone  racconti  e  rappresentazioni  delle  marche  e dei prodotti che le persone usano o useranno, allo scopo di orientarne le scelte individuali.

Tale approccio, dunque, integra fenomeni  psicofisiologici  e  neuropsicologici  (interni, non  direttamente  osservabili)  con  fenomeni  psicologici,  nella  narrazione  che  la persona fa dell’esperienza di fruizione ed elaborazione del messaggio (l’esterno, l’osservabile). 

Alcune ricerche del neuromarketing hanno dimostrato che lo spettatore era in grado di identificare alcuni marchi quando il prodotto pubblicizzato veniva integrato nella trama di un racconto,  assumendo un significato autonomo all’interno della narrazione.

Tali analisi hanno infatti confermato l’importanza di un logo nell’evocazione dell’immagine del brand (ad esempio Coca-Cola, Disney o Apple vengono richiamati alla mente e influenzano le nostre percezioni anche quando non li notiamo consapevolmente).

I racconti degli anni ’60: il pupazzo Provolino impersonato da Raffaele Pisu.

Il “neuromarketing”, dunque, indaga le percezioni inconsce dei consumatori nelle loro manifestazioni. Esso è un ambito della psicologia applicata che analizza l’impatto del marketing e della comunicazione sulla mente dei consumatori, misurando le reazioni del cervello dei consumatori a determinati stimoli visivi/uditivi, esplorando la connessione tra emozioneed attività elettromagnetica del cervello.

Le informazioni generate da questi test vengono spesso sfruttate a livello di marketing dalle aziende con l’obiettivo di generare “cose” che emozionino il più possibile il consumatore.

La capacità di un’azienda di costruirsi un’immagine distinta e una personalità forte consente di orientare verso di sé i desideri dei consumatori che si identificano o aspirano alla visione proposta.

Ad oggi le applicazioni del neuromarketing si estendono a sei ambiti particolari:

  • Branding: attraverso la misurazione del grado di relazione tra utenti ed il brand, ovvero l’analisi dell’idea che il consumatore ha di un’azienda;
  • Product design: nella misurazione della reazione dei consumatori a particolari prodotti e innovazioni.
  • Pubblicità: l’osservazione della reazione del pubblico ad una pubblicità, con lo scopo di avere  feedback certi su come rendere la pubblicità più accattivante.
  • Vendita nei negozi:il posizionamento dei prodotti all’interno di un negozio allo scopo di influenzare le scelte di consumo; l’analisi dello stesso ambiente, quali luci, i colori utilizzati e tutti gli altri aspetti che possono influenzare la propensione all’acquisto.
  • User Experience di un sito web nell’influenza delle emozioni di un visitatore.
  • Intrattenimento: film, serie TV, libri, musica.

Per ulteriori approfondimenti:

Lindstrom M., Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto, Apogeo Editore

Gallucci F., Marketing emozionale e neuroscienze, Egea

Babiloni F., Meroni V., Soranzo R., Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali, Springer Verlag

Morin C., Neuromarketing: the new science of consumer behaviour, www.academia.edu 

Rendere felice l’utente

E’ consuetudine pensare al marketing quale disciplina per organizzare le vendite in modo adeguato, richiedendo all’impresa stessa di produrre ciò che può vendere e partendo dalla valutazione dei bisogni, dei desideri, delle attese, delle richieste dei consumatori.

L’inversione della vecchia impostazione commerciale secondo cui l’impresa deve riuscire a vendere tutto ciò che è in grado di fabbricare è stata ormai attuata da tempo.

Tuttavia l’inesorabile evoluzione di internet sta portando la comunicazione a rivedere anche le logiche dei modelli di business associati al marketing strategico, attraverso il “content marketing”.

Questo ha lo scopo di attrarre utenti tramite la creazione e diffusione di contenuti pertinenti

Tali contenuti non devono per forza avere carattere pubblicitario, ma informativo e/o illustrativo. La battaglia dell’attenzione si vince con i contenuti, attraverso i quali raggiungere e stimolare l’interesse di potenziali clienti.

In merito al web marketing, il vecchio ed il nuovo approccio sono riassumibili con due termini:

  • L’Inbound marketing indica una modalità di marketing centrata sull’essere trovati da potenziali clienti (outside-in).

Esso è in contrasto alla modalità tradizionale, detta anche 

  • outbound marketing (inside-out) che è imperniata su un messaggio direzionato unicamente verso il cliente. 

Con l’Inbound si passa dall’Interruption (“interrompere”) al Permission Marketing: l’audience va conquistata fornendo contenuti interessanti e utili per il target di riferimento, non interrotta.

Gli strumenti di cui l’Inbound marketing si avvale sono:

  • il contenuto, fondamento essenziale della strategia, attraverso il content marketing
  • l’analisi SEO (Search Engine Optimization), volta a migliorare e mantenere la visibilità di un sito web sui vari motori di ricerca
  • il SEM, ovvero l’analisi semiologia atta a generare traffico qualificato verso un determinato sito web
  • il Social Media Marketing e l’analisi SMO (simile al SEO ma incentrata sui social network).
Inbound Marketing

I vantaggi dell’inbound marketing possono essere estesi a qualsiasi organizzazione o tipo di azienda che utilizzi il “canale” Internet (sito web in primis) come mezzo di comunicazione con clienti esistenti e potenziali. 

La creazione di campagne di Inbound e la sua gestione sono tutt’altro che semplici, pertanto sarebbe auspicabile un aiuto da parte di agenzie specializzate in tale ambito.

Sinteticamente, ognuna delle quattro fasi si basano su:

  • la capacità di essere trovati su Internet attraverso le parole chiave che potenziali clienti usano per cercare la risoluzione ad un problema in contesti affini al business che l’organizzazione conduce.
  • capire cosa fanno i potenziali clienti una volta arrivati sul sito web: il tempo di permanenza su una pagina, le preferenze in ordine di argomento etc.;
  • individuare con precisione il problema, la soluzione od il prodotto con la maggiore attrazione. Questo punto viene chiamato anche “conversione” (dall’inglese “conversion”), in quanto racconta all’organizzazione in che modo potenziali clienti diventano tali. Da passante “ignaro” a potenziale cliente.
  • il monitorare attraverso report periodici i dati quantistici, ovvero tracciare, misurare ed ottenere una semplice reportistica che fornisca all’organizzazione informazioni utili a comprendere come migliorare il sito web, quali social network sono più efficaci ed efficienti, cosa piace e cosa non si sintonizza con i potenziali clienti, e soprattutto come avviene la conversione da potenziale cliente a cliente vero e proprio. Quali fattori contribuiscono in modo decisivo, cosa deve essere migliorato o abbandonato.

Il successo, ma anche l’insuccesso o, nei casi peggiori, il danno all’immagine di un’azienda derivano anche e soprattutto dall’uso sapiente e consapevole della propria comunicazione e degli strumenti utilizzati nelle relazioni. Internet può essere un facilitatore, un ottimo intermediario se ben utilizzato. Ma le caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri canali di comunicazione, pubblicitaria e non, espongono gli effetti ad un potenziale ed irreversibile algoritmo, quello delle logiche di Google e degli altri motori di ricerca. Internet è quindi necessario, ma non indispensabile: tutto dipende dall’uso mirato e consapevole che ne si intende fare.