Psicologia ambientale

Poco nota in Italia è la branca della psicologia “ambientale” (Environmental Psychology), campo “di frontiera” tra la psicologia e gli altri vari ambiti, sia disciplinari che tecnici, riguardanti problemi attinenti al cambiamento dell’ambiente fisico urbano e che coinvolge le discipline dell’architettura e delle scienze naturali, apportando nel dibattito due delle principali tradizioni teoriche della psicologia della percezione-cognizione e della psicologia sociale.

Alla psicologia ambientale è dedicata la categoria “progettazione”: ogni frangente dell’analisi e della strutturazione di un piano di visual merchandising dovrebbe anzittutto prendere atto dalle fasi primordiali della strategia di marketing del committente. Saper individuare il target, le azioni e le tecniche di vendita, la tipologia dei prodotti offerti, il piano di comunicazione creato dall’azienda ed interpretare correttamente tali variabili in un tempo ed in uno spazio non è facile. Il magazine Prossemica nasce anche da queste esigenze, spesso delineate nei servizi di consulenza offerti ad architetti ed interior designer, al fine di tradurre e mediare il linguaggio economico-commerciale dell’azienda e quello tecnico-progettuale del professionista.

Spazi sociofughi - foto di Clark Street Mercantile
L’interesse alla psicologia architettonica nacque tra gli anni ’60 e ’70, con una serie di sperimentazioni atte all’osservazione pragmatica dell’esistenza di aspetti spazialisociofughi”, volti a scoraggiare l’interazione sociale, o, al contrario, “sociopeti”. R. Sommer elaborerà per primo i concetti di “territorialità umana” e di “spazio personale”(1969 – “Spazio personale: la base comportamentale del disegno progettuale“), contestualmente alla diffusione dell’insoddisfazione crescente verso la progettazione “egocentrica”, vista cioè come volta principalmente a soddisfare i bisogni estetici e di auto-affermazione dell’architetto/progettista e scarsamente centrata sulle esigenze dei destinatari/utenti degli edifici stessi. Molte normative che regolano le costruzioni, pur non basandosi sulla scienza psicologica, sono comunque guidate da assunzioni circa l’impatto psicologico delle forme e dell’ergonomia stesse.

Secondo queste posizioni, Canter (1972 – Psychology for Architects) individua alcuni aspetti critici:
– la necessità di distinguere le esigenze di “adeguatezza funzionale” degli edifici, rispetto a quelle relative la forma;
– la complessità del processo progettuale, in cui nessuno progetta per sé, accentuando invece l’utilità della ricerca psicologica come prezioso contributo in tale direzione.

Spazi sociopeti - foto di Kukuh Himawan Samudro

Secondo Canter e Lee (1974) le principali informazioni che la psicologia può fornire alla progettazione dell’ambiente sono suddivisibili in tre categorie:
le attività della gente: che tipo di attività vengono svolte dalle persone, dove e come sono svolte, come cambiano;
le valutazioni differenziate: quali sono cioè le gerarchie di priorità esistenti tra queste, dal punto di vista sia pratico che valoristico;
il rapporto comportamento/ambiente: conoscere e scoprire i rapporti “interattivi” tra persone ed ambiente.

(Testo di approfondimento: Bonnes e Secchiaroli, Psicologia ambientale – Introduzione alla psicologia sociale e dell’ambiente – Ed. NIS)

Psicologia della percezione

Il solo fatto di creare una forma fisica tenendo conto dell’effetto visivo che provocherà la sua percezione comporta, secondo Canter (1972 – Psychology for Architects), implicite assunzioni a livello scientifico e tecnico circa il rapporto tra le caratteristiche dello “stimolo fisico” e corrispondente “risposta psicologica”.

Il contributo della psicologia al processo della progettazione architettonica e del design viene visto in relazione a diversi momenti:
– ”ideazione”: utilizzo di alcune indicazioni generali provenienti dalla ricerca psicologica in materia di relazione tra caratteristiche architettoniche e comportamentali;
– “specificazione”: nell’individuazione delle influenze specifiche tra alcune caratteristiche fisiche dell’ambiente e gli aspetti psicologici altrettanto specifici (ad esempio tra ergonomia e rendimento lavorativo);
– “valutazione”: analisi dell’esistente anche sotto il profilo degli effetti psicologici conseguenti, per individuare eventuali inadeguatezze o possibili direzioni di miglioramento sia per il progetto che per quelli futuri.

Nella storia successiva della psicologia architettonica britannica, dagli anni ’80 vennero coniati sul mercato americano i relativi e più dinamici concetti di “relazione uomo/ambiente”, di “relazione persona/ambiente” e di “comportamento/ambiente”. Fino ad arrivare all’interpretazione odierna della nuova branca della “psicologia del design”, più spesso intenzionata nelle sue prime fasi ad esprimere le conseguenze negative dell’introduzione e dell’uso dei prodotti di design.

Dalle inflazionate teorie della scuola della Gestalt (parola tedesca tradotta genericamente con il termine “forma”), che nei suoi assunti stabilisce che l’uomo non percepisce un oggetto come la somma delle singole parti di cui è composto ma lo vede nella sua globalità, il contesto più contemporaneo interpreta gli oggetti secondo l’analisi semantica: i concetti di significante e di significato.

Il primo attribuisce le azioni possibili, il secondo le contestualizza nelle azioni quotidiane.

 

L’errore di credere che il design sia arte, porta la creazione dell’oggetto al “genio”, essendo l’opera d’arte l’espressione di un sentimento soggettivo che il genio, dotato di facoltà superiori, è capace di creare dal nulla, perpetuando con l’opera il suo pensiero.

Nel design industriale questo contributo illogico porta all’azzardo: l’azienda acquisterà l’idea, nell’incertezza che quel pezzo d’arte contribuisca a rafforzare o a deprimere il valore commerciale della gamma dei prodotti preesistenti. Dall’altra parte, il designer potrà proporre le proprie opere nella produzione di prodotti “in linea” con le proprie doti ed emotività artistiche e non con le caratteristiche della committenza. Domanda ed offerta si dovranno sempre più confrontare e trovare al di fuori del mercato dell’arte, nelle logiche delle discipline umanistiche e del branding.

Il viaggio dei valori

 

Nel numero 1164-5-6 anno 23 del settimanale Internazionale, questa volta dedicato ai viaggi, Giovanni De Mauro illustra argutamente nel sommario il concetto di “pianificazione”, intesa come “l’obbligo a prefigurare, anticipare, immaginare, fantasticare ciò che di buono e di bello ci si aspetta”, citando Mark Twain, che diceva: “Il viaggio è fatale al pregiudizio, al bigottismo ed alla ristrettezza mentale (…)”.

 

In merito alle tematiche del pregiudizio “geografico” è noto un articolo di Teju Cole, fotografo e scrittore statunitense di origine nigeriana, che sul The New York Times Magazine descrive la propria esperienza di un recente viaggio in Svizzera traendo spunto dall’opinione condivisa secondo la quale “la Svizzera evoca in ognuno di noi una serie di facili associazioni mentali (…) quali i paesaggi da cartolina, il segreto bancario e la puntualità dei treni”. Per gli stessi motivi sono di facile associazione iconica Londra con il suo parlamento ed una cabina telefonica rossa, Parigi con la Tour Eiffel, di Rio De Janeiro la statua del Cristo Redentore. Le metonimie riducono il Kenya al safari, la Norvegia ai fiordi e la Svizzera alle montagne.

Tuttavia il pregiudizio è considerato nella psicologia del consumo come il primo fattore di scelta dell’uomo, perlopiù nella attuale società occidentale ed industrializzata.

Per chi ci abita da sempre, il nostro Paese, l’Italia, è indefinibile, data la variegata cultura geografica, storica, letteraria e soprattutto artistica. Ma nel panorama globale il nostro Stato fu definito dal periodo del rinascimento e del barocco come culla della cultura artistica, esattamente nello stesso momento in cui molti artisti dell’Europa del nord attraversavano i confini montani per giungere a Venezia e Roma e tornavano a casa estasiati e pregni del vissuto che avevano sperimentato nell’arte nostrana.

 

Nel suo articolo Teju Cole analizza la comune esperienza del viaggio anche in senso storico: dal 1861 in Svizzera con l’avvento della stampa e delle guide, “l’intrepido viaggiatore poteva muoversi in terre straniere senza bisogno di persone al seguito o di contatti sul posto. (…) I viaggiatori tendono ad andare dove altri sono stati prima di loro, e forse è anche per questo motivo che la fotografia di viaggio rimane relegata all’ordinario. Se si visitano Zurigo, Città del Capo o Bangkok si scopre che sono molto simili: tra i parchi di divertimenti ci sono somiglianze impressionanti, nei caffè si suona la stessa musica, i centri commerciali sono intercambiabili, i bambini sugli scuolabus si somigliano tutti e gli interni delle case (suddivisi per classe sociale)  rispettano tutti gli stessi standard”.

 

Da queste premesse la nostra analisi tende a ri-cercare le chiavi di lettura dei fattori sociali, economici, politici e strutturali italiani più attuali al fine di ridefinire l’identità valoriale che potrebbe costituire un nuovo punto di partenza dal quale innovare la proposta Made in Italy nell’architettura della nostra ormai passata “Dolce Vita”.

Prossemica

Il rilievo assunto in letteratura dalla psicologia ambientale e dagli studi concernenti la dimensione spaziale, ha posto l’attenzione sui vari modi in cui le persone gestiscono ed usano lo spazio fisico-ambientale (il c.d. “comportamento spaziale”) e sulle “mediazioni cognitive” che le persone possono attivare.

Le specificità delle ambientazioni correlate nella progettazione e nel visual merchandising per prodotti italiani, è legata alla percezione delle forme plastiche ed al valore percepito di alto artigianato che ci contraddistingue.

Non a caso nei programmi televisivi le abitazioni americane vengono rappresentate da grandi cucine, atrii d’ingresso trionfali e soggiorni contornanti da parchi maestosi, mentre la nostra “Little Italy” è “little” anche negli spazi di casa, spesso avvertita claustrofobia dai popoli suddetti.

In questo senso, la disciplina della prossemica occupa un ruolo fondamentale nell’analisi della

comunicazione d’ambiente:

Zone prossemiche

Il termine inglese proxemics, derivato di proximity, “prossimità“, voleva indicare lo studio dello spazio umano e della distanza interpersonale nella loro natura di segno, indagando il significato che viene assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che questi interpone tra sé e gli altri, tra sé e gli oggetti, e, più in generale, il valore che viene attribuito da gruppi culturalmente o storicamente diversi al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo, su cui influiscono elementi di carattere etnologico e psicosociologici (rif. Dizionario Treccani).
Si distinguono quattro distanze prossemiche:

– Distanza intima:da 0 cm. a 45 cm.
– Distanza personale: da 45 cm. a 70 cm./1 m.
– Distanza sociale: da 120 cm. a 2 m.
– Distanza pubblica: da 2 m. ad oltre i 2 m.

Inoltre, lo spazio prossemico personale varia da cultura a cultura: è molto ridotto nei popoli dei paesi caldi (e tra i marocchini, gli arabi), in cui arriva quasi al contatto fisico; è, invece, molto ampia nei paesi freddi (ad es. tra gli inglesi è di circa 2 metri); da questa diversità, nascono dei problemi nei rapporti interetnici.

Saper progettare e costruire, soprattutto in merito al retail ed ai vari contesti del commercio, presuppone da parte dell’azienda e del progettista un’analisi attenta del contesto culturale in cui il punto vendita verrà collocato, ma anche della “cultura del consumo” che si desidera intraprendere:

prodotti italiani nell’export, soprattutto legati in qualche modo al valore artigianale percepito, possono essere tranquillamente collocati in spazi più piccoli, se l’intento del commerciante sarà quello di fare leva sul Made in Italy.

Si veda a titolo di esempio il brillante progetto di Eat’s per il “food shopping experience”: http://www.italiadeitalenti.it/interviste/eats-dove-la-vita-va-degustataeat's Milano