Stile Vs. TU

Nel primo dopoguerra e per tutto il decennio degli anni cinquanta, avviene in Italia l’incrocio del mondo delle sartorie di moda con i mondi del cinema e delle arti.

Nasce il Made in Italy: la prima sfilata a Firenze a Palazzo Pitti della casa Giovanni Battista Giorgini nel1951 raccoglie il consenso degli acquirenti americani, a cui presenta 180 modelli provenienti dalle più celebri sartorie italiane.

Insieme alla moda, il termine “stile” viene approcciato anche dal mondo dell’architettura: alla casa si associa la stratificazione emotiva legata agli spazi, agli arredi ed agli oggetti, nelle sue relazioni interdisciplinari con la città ed i cambiamenti sociali, industriali e tecnologici.

In questo senso la cultura dell’abitare ha origini radicate proprio nel nostro Paese, dove circa sette famiglie su dieci sono proprietarie della casa in cui vivono; l’Italia diventò l’incubatore del design come lo intendiamo oggi.  Cioè, per dirla con Gio Ponti, quel “progetto di oggetti per il vivere quotidiano”.

Negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo approccio “taglia unica”: nel mondo della moda esso indica l’unità di misura usata per piccoli indumenti o per biancheria in tessuto elastico che si può adattare a persone che hanno taglia diversa (def. da https://dizionario.internazionale.it).

La TU (taglia unica) dovrebbe vestire dalla taglia 40 alla 44/46 italiana.

Il celebre video pubblicato in web da Buzz Feed, evidenzia che la “one size” non esiste realmente poiché è impossibile che lo stesso capo si possa adattare bene a persone con fisici diversi, che in questo modo rischiano di sentirsi inadeguate, “sbagliate” nel fatto di non poter indossare un abito dalle misure dichiarate come “universali”.

L’approccio “taglia unica” non tenendo conto dell’identità sociale e dell’individualità dei suoi acquirenti, abbassa la leva del prezzo del settore (qualunque esso sia) e riduce il valore percepito della qualità del prodotto. Inoltre, comunicando principalmente con un target medio giovane caratterizzato da bassa capacità di spesa, lascia scoperte alcune fette di mercato caratterizzate da una diversa propensione al consumo, mentre, per sua definizione, dovrebbe interfacciarsi ad ogni tipologia di consumatore.

Ciò che sta accadendo nel mondo dell’architettura, delle finiture d’interni e negli arredi è una sempre maggiore tendenza verso la “one size”: generi architettonici e stili abitativi confluiscono in parallelepipedi di cemento che scivolano l’uno sull’altro e nei materiali e nelle loro tecniche più facilmente commerciali, con conseguente guerra di prezzo globale ed il depauperamento dell’identità locale. Tale atteggiamento confluisce nel danno alla ripresa economica del settore edile, ingegneristico ed architettonico, nonché della produzione di manufatti dal “sapore artigianale” che invece dovrebbero designare il Made in Italy tanto ricercato oltre Oceano.

L’orientamento allo “stile”, al contrario, potrebbe progressivamente portare all’aumento delle barriere all’entrata nel nostro mercato ed alla ripresa economica delle realtà aziendale ormai perdute nel tempo.

 

Per approfondimenti:

Made in Italy:  http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma/made-in-italy/14094/default.aspx

One Size Fits All: https://www.youtube.com/watch?v=OapuLyWTvjQ

I fondamenti aziendali

Nell’introduzione al marketing, è necessario chiarire anzitutto i concetti fondamentali dell’organizzazione “impresa”: la trattazione fondamentale verte su cinque fattori chiave atti ad individuare l’identità ed il sistema di valori, inteso come l’insieme degli scopi che contraddistinguono la strategia, il core business e l’ambiente nei quali essa opera.

La centralità degli argomenti di marketing è fondata su tre aspetti salienti:

  • la mission, ovvero la “dichiarazione di intenti”, lo scopo ultimo di un’impresa od organizzazione, nonché la giustificazione della sua esistenza. Solitamente la mission viene determinata dalla risposta, in un unico motto, a tre domande: chi siamo? Cosa vogliamo fare? E perché lo facciamo?
  • la vision, utilizzata nella gestione strategica del marketing aziendale, ed atta ad indicare ipotetici scenari futuri che possano rispecchiare i valori, gli ideali e le aspirazioni degli obiettivi determinati e delle azioni prefissate. Nel management aziendale, la vision delinea inoltre gli obiettivi di lungo termine e l’interpretazione del ruolo dell’azienda nel contesto economico e sociale al quale essa si rivolge;
  • la promise, ovvero la promessa che l’organizzazione o l’azienda citano per il raggiungimento di un intento comune con il consumatore del prodotto o servizio. Questa dinamica è fondamentale perché costituirà le basi sulle quali verranno erette le dinamiche del rapporto. La promise si esprime nell’unione di mission e vision aziendali mediante la comunicazione. 

Il processo di chiarimento e definizione di valori, missione e visione aziendale inizia con la creazione di un team di progettazione che deve avere al suo interno i rappresentanti di tutti i settori dell’organizzazione.

Il processo prevede le seguenti fasi:

  • individuare i valori condivisi: Robert Haas, presidente e amministratore delegato della Levi Straus afferma che ”I valori di un’azienda, ciò per cui essa esiste, quello in cui crede chi ci lavora, sono fondamentali per il suo successo competitivo. In realtà, sono loro che guidano l’azienda”;
  • esaminare il contesto attuale: per poter progettare il futuro, occorre avere le idee chiare sullo stato attuale dell’organizzazione, dei suoi prodotti, mercati, tecnologie, competenze, risorse. Si può anche partire dall’analisi storica dell’organizzazione per riscoprire lo spirito e l’energia dei fondatori, per passare poi ad analizzare le opportunità e i pericoli, i punti di forza e le aree di miglioramento, il contesto sociale, culturale e politico e concludere con un’approfondita analisi del bi-sogni dei clienti;
  • definire la mission:  essa, come detto sopra, determina in modo univoco il valore aggiunto di un’organizzazione, differenziandola dalle altre;
  • creare una vision: la visione, come suddetto, è l’immagine consapevole di ciò che vogliamo essere e creare nel futuro. Essa pertanto costituisce la guida per le scelte e le decisioni di ogni giorno e nella collettività interna; come ci ricorda Nikos Kazantsakis, scrittore e poeta greco del primo novecento, che afferma: “Credendo appassionatamente a qualcosa che ancora non esiste, lo creiamo. Quello che non esiste è tutto ciò che non abbiamo desiderato a sufficienza”.
  • realizzare la visione. Si tratta di portare i risultati del processo nella realtà quotidiana, andando a definire con chiarezza sia le capacità e i comportamenti coerenti con i valori, la missione e la visione che abbiamo definito, sia quelli con essi incoerenti. Un’attenta progettazione aziendale verte anzitutto sulla sua cultura e sui suoi sistemi operativi, coinvolgendo tutte le risorse nell’implementazione di precisi piani di azione mirati a realizzare la visione in tutti gli aspetti della vita aziendale, interna ed esterna.

Negli Uffizi

Nel video, trailer del film “La zuppa del demonio” di Davide Ferrario, il rapporto tra autorità, potere, industria ed economia, offre alcuni temi culturali per introdurre l’analisi dell’architettura aziendale che ha segnato l’intero ‘900.

 

Come abbiamo già avuto modo di approfondire, nella OST (Open Space Technology, quella vera, che esime dagli “open space” intesi come meri “spazi aperti”) l’impiego di capacità e competenze organizzative, gestionali e tecniche viene messo al centro dell’azienda, tradizionalmente negli uffici l’architettura degli spazi aziendali argomenta in merito alla centralizzazione della proprietà e della direzione.

 

In effetti, il termine stesso di “ufficio” indica il dovere, il compito inerente alla funzione o alla mansione esercitata, alla carica o al posto ricoperti. Precedentemente esisteva il “gabinetto”, inteso nel significato originario del termine come un piccolo locale adibito ad uso personale, alla stregua di un ufficio, solitamente utilizzato per colloqui riservati o per il ricevimento di ospiti.

In questa chiave architettonica la ridondanza del contenuto viene accentuata sull’ordine gerarchico e sul controllo interno dell’organizzazione aziendale: uffici più grandi, solitamente predisposti nelle zone più soleggiate o affacciate sui panorami circostanti, sono assegnate alla proprietà od all’amministratore delegato. Vi si affacciano gli uffici della segreteria direzionale e l’amministrazione, per poi assegnare via via in “scatole” sempre più piccole ed a comparti stagni le competenze tecniche, gli uffici di “customer” (care, service etc.) ed, infine, il reparto di produzione, solitamente staccato dal resto della compagine “impiegatizia”.

Un esempio storico, tutto italiano si trova della progettazione degli Uffizi di Firenze, che  permettono di capirne le dinamiche e la volontà architettonica, economica, politica e socio-culturale.

A metà del XVI secolo, Vasari fu chiamato da Cosimo a progettare gli uffici che avrebbero dovuto contenere tutte le magistrature cittadine. La peculiarità del progetto fu la risposta ad una esigenza pratica, che consisteva nel fatto che le magistrature non avevano lo stesso ruolo all’interno della città per cui avevano bisogno di spazi architettonici diversi. Uffizi lunghi furono preposti alle magistrature più importanti, Uffizi corti alle magistrature minori. L’ordine architettonico che prevalse fu quello dorico, ad indice di autorevolezza e fermezza, mentre le tre campate di testata vennero contraddistinte da un ordine composito, compromesso voluto da Cosimo stesso.

 

In conclusione, l’Open Space mendace, che ha rappresentato negli ultimi due decenni un vezzo di modernismo in svariate aziende sembra già anacronistico. Il ritorno ai più classici uffici sembra fare capolino a più riprese. Non ci sono architetture giuste o sbagliate, purché ancora una volta l’architettura stessa si faccia interprete dei valori culturali, stavolta riferiti alla corrispondente importanza delle competenze strutturali all’azienda, parafrasando, quindi, le parole di Franco Fortini: “Le parti del discorso come parti della costruzione: l’ingegneria si è unita al paesaggio, è diventata architettura (…)”.

Pubblicità radiofonica: in auge

Fare pubblicità attraverso la radio, rende: la campagna “La radio rende”, realizzata da Trip Multimedia Group e promossa da FCP-Assoradio, evidenzia alcune salienze del mezzo radiofonico in riferimento alla pubblicità. Le argomentazioni che ripropongono la radio quale mezzo pubblicitario, dopo un periodo di crisi e dato l’avvento del social media marketing, evidenziano alcuni fattori chiave di questo canale:

  • la radio è social poiché è molto influente anche sul web, 
  • è coinvolgente, dato che crea emozioni e coinvolgimento,
  • è persuasiva, citando gli speaker radiofonici quali influencer,
  • è evocativa se si parte dal presupposto  che una voce possa essere più convincente di un’immagine.

Fino a questo punto, tuttavia, essa rimane paragonabile ad altri mass media.

 

Tuttavia  la radio ha alcune caratteristiche che la TV, ad esempio, non ha: mentre negli anni ’50 e ’60 veniva ascoltata principalmente in casa, date anche le sue dimensioni fisiche, già dagli anni ’80 inizia a diventare un luogo mediatico di aggregazione: sono molti i ricordi legati alla “radio in spalla” come effetto globale della sua portabilità. Ad oggi questo strumento di comunicazione è sempre presente, perché fruibile attraverso più dispositivi ed in molteplici contesti. Basta pensare che in moltissimi ambienti aperti al pubblico c’è sempre un sottofondo radiofonico, come nei supermercati, nelle sale di attesa, talvolta anche all’interno degli uffici. L’uso comune, inoltre, prevede che la si accenda appena saliti in macchina e la si ascolti nei tempi di percorrenza di un tragitto, soprattutto se lungo.

 

Negli ultimi anni, anche la radio si è resa più attenta alla propria adattabilità al target, grazie alla  localizzazione geografica, ai format proposti, sempre più orientarti a precise categorie di ascoltatori ed agli orari di emissione di un programma: i contenuti arrivano all’ascoltatore in vari momenti chiave della giornata (talvolta intercettano proprio il momento in cui egli si sta recando a fare shopping).

Lo spot radiofonico lascia infine molta immaginazione all’ascoltatore e per il committente di una campagna permette maggiori margini alla creatività, a costi non troppo elevati. Una campagna radiofonica poi, si attiva in tempi brevi ed è pertanto più veloce rispetto a campagne ipotizzate per altri canali di comunicazione.

La difficoltà principale risiede nell’individuazione della giusta strategia di comunicazione e nella scelta delle emittenti e dei prodotti radiofonici più adatti. 

In particolare, la radio è indicata per la promozione di eventi, di offerte speciali e di tutte quelle iniziative che necessitano di una comunicazione rapida e intensa.

 

 

Di certo, la tecnologia svolge un ruolo fondamentale per quanto riguarda la portabilità dell’apparecchio: i nuovi dispositivi audio, che ora permettono di riprodurre i contenuti direttamente dal proprio Smartphone, unitamente alle sempre più ridotte dimensioni dei supporti, permettono di ricavare del tempo personale da dedicare all’ascolto del palinsesto radiofonico, pubblicità inclusa, anche durante le attività sportive, ad esempio.

Soprattutto in quei momenti e rispetto alla TV, lo zapping per radio è meno diffuso, motivo per il quale uno spot radiofonico potrebbe permeare maggiormente rispetto ai contesti visivi.

 

Per quanto compete la durata di un radiocomunicato, essa dipende dalla strategia di comunicazione e dal budget a disposizione: in Italia lo standard corrisponde ad uno spot da 20 o 30 secondi, tuttavia vengono creati anche comunicati da 60 e da 15 secondi.

Infatti in alcune circostanze può essere conveniente puntare su un certo numero di spot di durata maggiore (30 o 60 secondi) e utilizzare spot da 15 secondi come rinforzo alla comunicazione. L’utilizzo di comunicati di minore durata, infatti, può aiutare ad ottimizzare il budget, perché:

  • uno spazio da 30 secondi costa mediamente la metà di uno da 60
  • uno spazio da 20 secondi costa mediamente il 20% in meno di uno da 30 (il 10% in meno sui network nazionali)
  • uno spazio da 15 secondi costa mediamente il 30% in meno di uno da 30 (il 20% in meno sui network nazionali)

Comunemente un singolo passaggio da 30 secondi su una radio può costare da pochi euro a diverse centinaia di euro. Il prezzo è principalmente legato alla copertura geografica della radio ed alla sua audience in termini di ascolto medio giornaliero.

 

In merito al costo della produzione di un radiocomunicato professionale, invece, i prezzi si aggirano tra un centinaio di Euro fino a qualche migliaio di euro in base al tipo di creatività, alle voci e alle musiche utilizzate, alla diffusione del messaggio (locale, regionale o nazionale, network o emittenti locali, etc.) e ad altri parametri.

Un bell’esempio di pubblicità radiofonica dell’ultimo periodo è di Mapei Spa:

Sull’efficacia delle campagne, molto dipende dagli obiettivi previsti:

  • se lo scopo è far conoscere un prodotto e/o servizio, il fattore “tempo” è determinante ed è possibile presumere la necessità di una frequenza giornaliera bassa (es. 4-5 comunicati) per periodi lunghi (ragioniamo in termini di mesi o anni);
  • pianificazioni di lungo periodo a budget limitato sono consentite attraverso il ricorso al “flighting”, ovvero a campagne pubblicitarie di 3-4 settimane ripetute più volte nell’arco dell’anno, che solitamente prevedono una frequenza giornaliera di 6-8 passaggi;
  • per la promozione di eventi od offerta speciali, invece, solitamente viene consigliata un’alta frequenza giornaliera (es. 10-12 comunicati) per un breve periodo di tempo (2-3 settimane).

 

Il ruolo fondamentale delle agenzie è riconducibile alla consulenza ogni qual volta si necessiti di:

  • conoscere correttamente il panorama radiofonico, che è molto vasto e articolato, e scegliere le emittenti giuste;
  • un supporto nella definizione di una strategia di comunicazione;
  • un aiuto nella realizzazione di un radiocomunicato;
  • condurre le trattative con i mezzi per ottenere le migliori condizioni, ottimizzando il budget.

Il consiglio, con o senza l’ausilio di un’agenzia specializzata, rimane comunque di contattare i reparti vendite delle radio o delle concessionarie e richiedere tutte le informazioni necessarie ad assicurarsi che l’emittente sia in linea con gli obiettivi previsti e con il target di riferimento.

 

Per ulteriori approfondimenti:

www.laradiorende.it