Encomio del Natale

In molti siti e blog, sui vari social network è possibile trovare recensioni più o meno autorevoli sulle pubblicità natalizie più belle del momento.

Lungo tutto il 2018 abbiamo ripercorso, analizzato ed approfondito vari mass media e provato a sintetizzarne di ognuno le logiche, le opportunità ed i target, con l’intento di formulare una strategia pubblicitaria credibile che potesse rendere appetibile i vari prodotti e servizi.

Ma abbiamo anche parlato spesso di “cultura d’impresa”, dei valori che ne fondano l’etica e la ragione ultima della sua esistenza.

Ed allora il nostro augurio è che questi valori non vengano studiati a tavolino, ma ascoltati dal cuore: solamente l’amore e la passione sanno creare ed infondere valore.

Auguri di Buon Natale!

L’amore è il regalo: il senso universale del Natale.

Per ulteriori approfondimenti:

“Love is a gift”: storia del video.

Lo spot

Soprattutto in un mercato “maturo”, la marca diventa un elemento vitale di collegamento tra produttore ed acquirente. Essa serve a indicare e garantire la provenienza del prodotto da una determinata azienda, a offrire al consumatore un riferimento costante per individuare e riconoscere i prodotti e la rete di vendita; sulla base di ciò, la pubblicità comunica il cosiddetto “valore d’uso” ed il “valore aggiunto”, il “significato simbolico”. Contribuendo a costruire la marca, la pubblicità diventa soprattutto strumento di differenziazione dei prodotti e, in tal modo, di orientamento della domanda, capace di instaurare un rapporto di fedeltà da parte dei consumatori, talvolta in grado di tradursi in una ‘barriera all’entrata’ sul mercato da parte di altre imprese o di altri prodotti.

 

La strategia pubblicitaria si concentra su insieme di scelte volte a stabilire come la pubblicità deve conseguire il proprio obiettivo: come studiare il Target Group, quali messaggi indirizzargli, attraverso quali mezzi, in quale periodo di tempo, in base a quale stanziamento (budget).

Dalla strategia di comunicazione derivano le indicazioni essenziali per la realizzazione della campagna pubblicitaria: un insieme articolato, coordinato e programmato di iniziative, il cui aspetto più caratteristico è costituito dall’idea creativa e dalla sua elaborazione attraverso i messaggi da diffondere mediante i mezzi prescelti (Creatività pubblicitaria). Generalmente la realizzazione delle campagne viene affidata dalle imprese a organizzazioni specializzate, le agenzie di pubblicità.

 

In merito all’appetibilità di uno spazio televisivo abbiamo già parlato.

Per quanto riguarda invece il linguaggio di uno spot pubblicitario ed alla sua creazione, vale la pena riprendere alcune fasi storiche che hanno segnato l’affermazione dello spot televisivo: un messaggio preregistrato, reso possibile proprio dall’evoluzione tecnica che viene ripetuto più volte, anche nella stessa giornata. Con la chiusura del Carosello, il nome dello sponsor passa dal presentatore o dalla valletta degli anni ’60 e ’70, ad un breve inciso, studiato nei minimi particolari da professionisti, con l’intento di ammortizzare i costi in una campagna pubblicitaria prolungata nel tempo.

Più recentemente e con la iper saturazione dei mercati, la continua necessità di segmentazione dei Target Group, sempre più specifici, ha modificato, i protagonisti principali degli spot pubblicitari, rivolgendo l’attenzione a single (si veda Banderas, che ha brillantemente sostituito la celebre “famiglia del Mulino Bianco”), anziani, immigrati e coppie di fatto.

 

 

Nonostante l’evoluzione dei Target Group, una costante pubblicitaria, che si affermò già sul finire degli anni ’80, è rappresentata dall’uso dello “storytelling”, il racconto emozionale alla base degli spot, di solito basato su una famiglia, spesso mitizzata e lontana dalla realtà, che consuma o usa il prodotto reclamizzato. Questo genere di racconto funziona ancora oggi: le neuroscienze indicano nei “neuroni specchio” la risposta all’intenzionalità delle persone.

 

Questa classe specifica di neuroni, infatti, si attiva sia quando un individuo esegue un’azione sia quando lo stesso individuo osserva la medesima azione compiuta da un altro soggetto; l’apprendimento avviene attraverso l’imitazione e la simulazione.  Per questo motivo molto spesso nella pubblicità massiva è d’uso la figura del testimonial: può trattarsi di un personaggio famoso, ma, soprattutto dopo l’avvento del social network e dell’istituzione della cosiddetta “brand reputation” (la reputazione di una marca nel web), tale figura può essere ricoperta anche da utenti che abbiano provato/testato un dato prodotto e/o servizio.

 

https://www.youtube.com/watch?v=msS5iW2uABE

 

In generale lo scopo del testimonial è di raggiungere un pubblico sempre maggiore e convincere lo stesso all’acquisto. Per aumentare l’efficacia del testimonial, è necessario che esso sia:

  • specifico (le testimonianze vaghe solitamente non convincono)
  • credibile, ponendo talvolta anche delle obiezioni (un utente solo entusiasta è meno convincente)
  • contestualizzato (ovvero proponga informazioni normalmente chieste nel momento dell’acquisto)
  • relazionale (cooè parli con gli utilizzatori potenziali del prodotto).

Alla storia ed all’eventuale testimonial, lo spot solitamente propone una frase concettosa e sintetica, orecchiabile e suggestiva, chiamata “slogan” o “claim pubblicitario”; alcuni slogan nella storia si sono rivelati così azzeccati da segnare poi intere ere sociopolitiche: “Amaro da bere”, “Dove c’è Barilla c’è casa” etc. E’ bene sottolineare che lo slogan varia da campagna a campagna, poiché rappresenta la promessa che un prodotto scambia in quel dato periodo con il suo consumatore ideale. Naturalmente anch’esso è un elemento che deve mantenere la coerenza anzitutto con il od i Target Group, in seconda battuta con il contenuto della promìse (promessa), l’eventuale testimonial e le caratteristiche del prodotto che rispondono al bisogno del potenziale consumatore.

 

Per ulteriori approfondimenti:

qualche spunto dalla critica di Aldo Grasso, che ha analizzato il fenomeno degli spot pubblicitari trasmessi sulle tv locali, soffermandosi prevalentemente sulle esperienze lombarde.

Questo è un estrapolato dell’elenco degli spot pubblicitari indicati da Aldo Grasso:

  • KATIA ARREDAMENTI: con lo slogan “Sciura Maria grazie di esistere”, che realizza anche piccoli serial ambientati in località di interesse turistico note o meno note.
  • IL MERCATONE DELL’ARREDAMENTO DI FIZZONASCO: sempre identico da lustri, basato sull’esibizione in stile americano di majorettes.
  • EUROARREDI: con lo slogan “non ci credi, se non vedi”, esortazione per certi aspetti similare al “provare per credere” di Guido Angeli del mobilificio Aiazzone.
  • CASA DEL BAGNO: “Jingle molto orecchiabile con musica soft, molto rilassante”
  • MIRACLE BLADE: spot doppiato dall’inglese dove un cuoco italo-americano fa mostra dei possibili usi che si possono fare dei coltelli in vendita con prezzo scontato alle prime 50 telefonate.

Stand Rinnovation

Progettare uno stand significa progettare il luogo “reale” della comunicazione aziendale.

Le prossime fiere in calendario hanno già riacceso l’interesse verso la progettazione degli stand: visitandole di volta in volta è infatti possibile notare piccole e grandi lacune in termini di coerenza tra l’immagine aziendale di alcuni espositori e lo stand proposto.

Sovente infatti la progettazione di questo spazio viene demandata al gusto estetico ed al know how del progettista.

Tuttavia il nucleo centrale dell’intero processo di progettazione deve vertere anzitutto sulla sua efficacia comunicativa, intesa in primis come rappresentazione aziendale e solo in seconda battuta da criteri di funzionalità.

Il percorso più corretto per tale progettazione dovrebbe iniziare da un brief a cura dell’azienda:

  • analisi preliminare:
  1. scelta della fiera, definita in base al target ed all’immagine dell’evento, che deve essere coerente con l’immagine aziendale;
  2. definizione degli obiettivi dell’azienda e dei ritorni attesi dalla fiera;
  3. budget parziale: affitto dello spazio, progettazione e realizzazione dello stand, allestimento;
  4. budget totale: costi collaterali quali quelli organizzativi, del personale, iniziative varie (buffet, cene, etc.), costi di comunicazione (sia on che off line, nonché brochures, inviti etc.);
  5. individuazione del project manager;
  • brief creativo:
  1. mission, vision, eventuale mantra vision, codice etico e valori aziendali;
  2. marchio: forme, colori (pantone o RAL), font, dimensioni, linee prospettiche ed assonometrie;
  3. analisi e sintesi dell’immagine coordinata dell’azienda;
  4. i prodotti da esporre, secondo ordine gerarchico d’importanza (compresi design da testare);
  5. localizzazione del mercato di riferimento (local, glocal o global);
  6. principale target di riferimento raggiungibile mediante la fiera prescelta;
  • spazi prossemici:
  1. caratteristiche culturali del target potenziale: paradossalmente nei Paesi caldi gli spazi prossemici sono più stretti (nei Paesi Arabi l’abbraccio rappresenta il saluto), viceversa nei Paesi più freddi (in Giappone ad esempio la stretta di mano è surclassata dall’inchino);
  2. definizione delle aree di competenza: tecniche, organizzative e gestionali, relazionali e comunicative.

Dal brief aziendale, l’analisi architettonica a cura del progettista:

  • lettura ed interpretazione corretta del brief creativo esposto dall’azienda committente;
  • progettazione degli spazi prossemici:
  1. spazi di transito e spazi di sosta: a questi ultimi va data una maggiore dimensione per evitare una vicinanza distorsiva tra estranei;
  2. spazi di visione: l’atto del guardare necessita di piccole nicchie ove poter sostare senza che la propria vista o la propria permanenza vengano danneggiate dalle zone di transito;
  3. spazi di relazione: destinati al contesto commerciale, abbisognano di privacy;
  • progettazione architettonica dello stand (interpretando rigorosamente il brief dettato dall’azienda):
  1. scelta della tipologia di stand: aperto o chiuso. Se lo stand è aperto, è possibile determinarne la forma: ad isola, a penisola, ad L, aperto su uno o due lati;
  2. il layout non serve, poiché concetto fuorviante rispetto all’analisi delle competenze aziendali che entreranno in fiera, come illustrato nel brief aziendale;
  3. i percorsi si suddividono normalmente in percorso singolo, multiplo o a ventaglio. Nuovamente l’informazione non deve nascere dal progettista, bensì pervenire dagli spazi prossemici analizzati e richiesti dall’azienda;
  4. ad un’unico livello o multipiano, modulare o su misura, sulla sua forma e sulla definizione dei perimetri e delle altezze;
  5. pareti e soffitti, finiture ed arredi, l’illuminazione, grafica etc. sono infine chiavi di comunicazione di fondamentale importanza: la percezione del visitatore dovrà corrispondere univocamente all’immagine coordinata dell’azienda, al suo universo culturale ed ai valori interni, nonché al piani di marketing e di comunicazione sviluppati al suo interno;
  6. rispetto ai materiali da utilizzare per la costruzione dello stand, alle certificazioni in termini di sicurezza, antincendio etc., sta al progettista invece orientare il proprio committente sulle scelte puntuali.

Affidare la progettazione dello stand ad un buon progettista significa semplicemente condividere con lo stesso l’identità aziendale ed instaurare una relazione a due fatta di ascolto e comprensione, parimenti a come si farebbe nell’incontro tra due persone che abbiano voglia di conoscersi e di presentarsi assieme al mondo esterno.

Valori e competenze

Sempre più spesso le aziende, per poter far fronte alla concorrenza e all’evoluzione del proprio mercato, devono offrire ai clienti certezze sulla qualità dei prodotti/servizi sviluppati e trasparenza nei processi aziendali.

Nell’ultimo ventennio il mondo delle imprese, sia manifatturiere che di servizio, sia pubbliche che private, è stato protagonista di una vera e propria rivoluzione della qualità  che ha profondamente influenzato le strategie d’impresa, il management, il ruolo delle persone e la modalità con cui approcciare le diverse attività aziendali. Questa rivoluzione globale ha sottolineato per le aziende un vero e proprio passaggio cruciale, che in molti casi è divenuto obbligatorio per la sopravvivenza nel mercato: instaurare un Sistema di Gestione per la Qualità (SGQ) in grado di essere certificato da un ente accreditato.

La necessità di avere un riferimento internazionale, attraverso il quale stabilire la qualità del proprio lavoro, ha determinato, nel 1987, l’emanazione, da parte dell’ISO (International Organization for Standardization), di una famiglia di norme internazionali. Tale famiglia contiene un insieme di regole il cui scopo è garantire che un’azienda implementi un sistema di gestione interna in grado di garantire la qualità dei prodotti/servizi offerti. 

La volontà di intraprendere un percorso di certificazione da parte delle aziende sia spesso dettata solamente da logiche di mercato, è necessario rimarcare come quest’obbligo si può trasformare in una vera e propria opportunità “sociale”. Infatti, da un lato si rivedono in chiave di business i propri asset strategici ed operativi, ma dall’altro tale percorso si può rivelare un vero e proprio progetto “comune”, strategico per mantenere:

  • un alto coinvolgimento e affiatamento tra i collaboratori, 
  • una contaminazione e aumento delle competenze in un’ottica di miglioramento continuo.

Nella sua etimologia il termine “competenza” (dal latino “cum-petere”) significa “chiedere”, “dirigersi a”, ossia la “piena capacità di orientarsi in determinati campi con legittimazione di autorità e ruolo ad esprimere un mandato”.

Nelle aziende, in particolare, con i propri collaboratori, si instaura una corrispondenza tra compito atteso e capacità del soggetto ad assolverlo.

La nozione di competenza riguarda sia le prestazioni di fronte ad un compito, sia i processi che intervengono nell’esecuzione di una o più attività: ne deriva che le prestazioni esplicite ed osservabili sono condizione necessaria ma tutt’altro che sufficiente per descrivere la competenza, in quanto pratica contestuale i cui singoli elementi sono impossibili da disaggregare e misurare. La competenza così intesa si può definire “contestuale”, legata ovvero all’ambiente di azione, e strategica rispetto alle forme possibili di decisione e di intervento.

Lo studio, l’analisi ed il perfezionamento dei processi di apprendimento implica, quindi, l’attenzione ai contesti intesi come luoghi all’interno dei quali l’individuo stesso trova una possibilità per la sua espressione.

Il contesto è formativo perché plasma il modo in cui gli individui costruiscono i significati.

Tali contesti si sviluppano nel corso dell’interazione sociale e non possono pertanto essere creati od imposti da singoli attori (si veda il concetto di “habitus” espresso da P. Bourdieu*): nello studio e nella ricerca su come gli individui apprendono mentre lavorano e su come sia possibile sostenere il recesso di apprendimento, è indispensabile fare riferimento al contesto socioculturale ed al contesto delle comunità di pratiche.

L’idea di cultura, nel nostro caso da intendersi come “cultura aziendale”, come processo di costruzione, ricostruzione e distruzione dei significati (Piccardo e Benozzo, 1996) richiama l’opera di Weick che parla di attivazione di ambienti attraverso l’agire organizzativo e l’attribuzione di senso.

Una volta attivati gli ambienti, essi hanno un effetto retroattivo sugli attori e sulle sue attività, condizionate. La cultura, quale “struttura di significato nei termini della quale gli esseri umani interpretano la loro esperienza e dirigono la loro azione” (Geertz, 1987), ha un tratto tangibile nel sistema di simboli che veicolano codici di significato. I simboli presenti in un contesto socioculturale incorporano ed esprimono relazioni. Essi rappresentano un insieme di forme che vanno dalla fisionomia degli spazi e degli edifici, agli arredamenti, alle consuetudini fattive e fattuali dei suoi partecipanti e che costituiscono un insieme di elementi attraverso i quali è possibile entrare, interagire ed uscire da un determinato contesto che orienta le azioni e le decisioni dei suoi partecipanti.

In questa accezione questo articolo si lega al post pubblicato nel nostro blog I fondamenti aziendali:l’apprendimento di un qualsiasi saper fare è mediato dalle relazioni, sia nella fase di formazione che in quella del lavoro, in cui l’individuo incontra, all’interno della singola organizzazione, altri individui con cui dà vita ad un sistema di relazioni che egli sente come maggiormente significative relativamente al compito assegnato (compito sociale, non prettamente contestualizzato alla propria mansione professionale).

*Testi di approfondimento:

Competenze e formazione – organizzazione lavoro apprendimento – Ed. Guerini e Associati